A raccontare i bisogni di un mondo senza nome, che è, però, poi fatto di tanti nomi di bambini e ragazzi coinvolti nel dramma di non avere una diagnosi, è Federico Maspes che ha fondato Hopen
Supporto clinico e nel quotidiano, il riconoscimento da parte delle istituzioni, avere accesso a esami genetici completi (con il sequenziamento dell’intero genoma), avere una diagnosi e uscire dal vuoto totale che pesa come un macigno e crea solitudine: è il grande sogno per chi ha una malattia senza nome (oltre 100mila), una sindrome non diagnosticata, o perché senza una causa nota, o perché manca, appunto, la diagnosi genetica e quindi la possibilità di associare a un quadro patologico una determinata anomalia del genoma già nota. A raccontare i bisogni di un mondo senza nome, che è, però, poi fatto di tanti nomi di bambini e ragazzi coinvolti nel dramma di non avere una diagnosi, è Federico Maspes che ha fondato Hopen, per aiutare le famiglie che, come lui, vivono il dramma dei ‘senza nome’. Nel mondo ci sono circa 350 milioni di persone colpite da malattie genetiche rare e sono circa 7mila le sindromi conosciute, queste coprono, però, meno del 50% di tutti i casi di malattie genetiche rare. Secondo i National Institutes of Health (NIH) statunitensi, la percentuale di pazienti senza diagnosi sulla popolazione generale dei malati rari è pari al 6%. In Italia, quindi, su circa due milioni di persone con malattie rare, i rari senza diagnosi sarebbero oltre 100mila. La percentuale di pazienti ‘orfani di diagnosi’ sale al 40-50% se si considerano solamente i malati rari pediatrici con disabilità mentale e quadri sindromici. Si ritiene, inoltre, che la metà dei bambini con disabilità nell’apprendimento e circa il 60% dei bambini con problemi congeniti multipli non abbiano una diagnosi precisa e definitiva.
E se già l’iter diagnostico dei malati rari è di per sé un’odissea fatta di ripetuti esami, ricoveri e visite specialistiche in diversi centri, con un ritardo medio nella diagnosi di circa cinque anni e una diagnosi sbagliata in un caso su tre, per un ‘senza nome’ si trasforma in un calvario. “Nel caso di nostra figlia Clementina – racconta Maspes – ci sono voluti 28 anni e visite in Italia e all’estero prima di approdare alla diagnosi, una delezione sul cromosoma 4”. Una risposta importante viene dai nuovi strumenti di analisi genetica e genomica (NGS, Next Generation Sequencing), che grazie alla rivoluzione tecnologica degli ultimi 20 anni consentono oggi di ottenere un’enorme quantità di informazioni sul patrimonio genetico individuale e familiare. Gestire un malato senza diagnosi resta comunque complicatissimo – sottolinea Maspes – e non è solo un problema diagnostico. Nel dramma della malattia di un figlio ci si ritrova soli, perché non esistono, ben distribuiti sul territorio, sistemi di supporto alle famiglie. Anche le associazioni di genitori di pazienti sono frammentarie e isolate tra loro. “È difficile fare rete – spiega – cosa che sarebbe cruciale per aumentare la nostra forza di penetrazione, per farci ascoltare dalle istituzioni e smuovere il mondo della ricerca”.
Da soli si è “niente”, anche conquiste che dovrebbero essere scontate, come ottenere l’invalidità, diventano difficili. C’è poi la difficoltà di disporre di spazi adeguati, luoghi di incontro e di attività con valore anche terapeutico; invece vediamo che questi ragazzi dopo il liceo non hanno nulla su cui poggiarsi”. Casa Hopen, racconta, attualmente offre attività a quasi 30 ragazzi, dal karate, che ha un potere quasi catartico per loro, alla pet therapy. “Ma vorremmo migliorare questi progetti aggiungendo sempre nuove attività da offrire, ed espandere la nostra esperienza anche in altre città. Stiamo provando anche a muoverci in campo istituzionale – spiega – per farci riconoscere e quindi veder riconosciuti i nostri diritti, anche per questo il volto di associazione si deve delineare in una rete, in una federazione di associazioni, con più forza. Bisognerebbe spingere, ad esempio, per ottenere che il sequenziamento dell’intero genoma sia prescrivibile con impegnativa in certi casi; offrire servizi su tutto il territorio nazionale. “Il nostro sogno più grande – conclude – sarebbe creare un servizio residenziale dedicato, una struttura che non ti abbandona e che sia come una famiglia quando i tuoi genitori non ci saranno più a sostenerti”
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