“Quando siamo tornate a casa, dopo un mese di ricovero a Bologna, la mia prima reazione è stata smettere di cucinare e di mangiare. Mia figlia, a causa della sua malattia, non poteva più nutrirsi per via naturale, per bocca come facciamo tutti, ed io mi sentivo in colpa a desiderare qualsiasi tipologia di cibo”. Mamma Betty racconta così, in un’intervista a Sanità Informazione, la sua storia e quella di sua figlia Sarah, oggi trentenne. Eppure, questo senso di colpa è stato solo il primo dei tanti ostacoli che da quel momento Betty si è ritrovata ad affrontare. Ricevere tutto il necessario per la nutrizione parenterale, dalle sacche alla pompa di infusione, fino all’assistenza infermieristica domiciliare è un diritto che Betty ha dovuto conquistare con la forza. Le sue parole non sorprendono dopo aver ascoltato la testimonianza di Alessandra Rivella, fondatrice e direttrice di A.N.N.A., Associazione nutrizione artificiale (nella foto sopra alcuni membri dell’Associazione) che, in un’intervista a Sanità Informazione (leggi l’articolo), aveva raccontato le difficoltà quotidiane che affrontano le persone nutrite artificialmente, evidenziando come la Sardegna fosse tra le Regioni più problematiche. Per andare a fondo a questa storia e per raccontare al meglio questi ostacoli quotidiani, frutto di un’inaccettabile disparità territoriale, abbiamo intervistato mamma Betty (caregiver di sua figlia), una donna in nutrizione parenterale sin dalla nascita e un medico specialista in nutrizione clinica.
Ma andiamo con ordine, continuando a raccontare il punto di vista di un caregiver, mamma Betty: “Viviamo in Sardegna e in tutta la Regione non c’è nemmeno un Centro di riferimento per la nutrizione artificiale. Affinché mi fosse riconosciuto il servizio di autogestione, e non il servizio di assistenza domiciliare, che ci costringeva a stare a casa tutte le ore dell’infusione, sono dovuta ricorrere alla polizia e far finire la mia storia sulle prime pagine dei quotidiani – aggiunge la donna -. Nonostante la Regione Sardegna avesse già finanziato la mia Asl di riferimento, quest’ultima se la stava prendendo comoda, mentre mia figlia si nutriva attraverso sacche ‘standard’ in commercio, al posto di quelle fatte su misura, necessarie in virtù della sua intolleranza ai lipidi e altri tipi di nutrienti. In tutta questa battaglia, nonostante fosse lei, mia figlia, la persona affetta da malattia rara, mi incoraggiava a non mollare. Io non avevo voglia di cucinare? E lei lo faceva per me, sostenendo che già quel gesto l’aiutava a sentirsi sazia. Ha continuato a farlo fin quando la sua malattia glielo ha permesso, fin quando le sue condizioni di salute non sono peggiorate, talmente tanto da non riuscire neanche più a partire per i controlli a Bologna, costretta a letto e sotto morfina – racconta ancora mamma Betty -. E, contemporaneamente, per me l’età, inesorabilmente, avanza: tutto sta diventando più faticoso, io non sono più una ragazzina ed ho bisogno a mia volta di cure. Lo Stato non riconosce il nostro ruolo di caregiver e non ci è concesso nessun diritto, figuriamoci quello di ammalarci. Ogni qual volta ho provato a chiedere l’aiuto di qualcuno per la gestione della nutrizione parenterale sembrava stessi parlando di un avvistamento Ufo”.
La percezione di essere guardata come chi parla di visioni extraterrestri è la stessa descritta da Simona, 48 anni, residente ad Ales, in provincia di Oristano. “Sono affetta da IIBC, ovvero insufficienza intestinale cronica benigna, diagnosticata tardivamente, dopo quasi vent’anni di battaglie. Ed è da allora che vivo grazie alla nutrizione parenterale. Ho trascorso la mia infanzia in Liguria, dove ho ricevuto le prime cure, poi mi sono affidata al Centro di Nutrizione clinica di Torino – racconta la donna -. Da cinque anni vivo in Sardegna, una Regione dove, nonostante la presenza di validi specialisti, non esiste un Centro di riferimento per i pazienti nutriti artificialmente. Una lacuna che mi ha costretta ad un ricovero di 20 giorni in hospice, dove dovrebbero essere accolti solo i malati terminali. Ed invece ci sono finita anch’io, perché i reparti ospedalieri qui non sono attrezzati ad accogliere ed assistere una persona in nutrizione parenterale. Ed ora, nelle mie condizioni, costantemente sotto morfina per placare i dolori insopportabili dovuti ad un peggioramento della malattia, recarmi a Torino è impossibile. Non ne ho la forza, né mentale, né fisica e non ho, purtroppo, nemmeno la certezza di un nuovo intervento che possa offrirmi sollievo. Per non parlare delle difficoltà di accesso al pronto soccorso: non hanno né i mezzi, né le competenze per rispondere alle emergenze che possono presentarsi nelle nostre vite”.
La totale assenza di Centri di riferimento per le persone nutrite artificialmente è confermata anche dal dottor Ilario Carta, referente per la regione Sardegna della SINuC (Società Italiana di Nutrizione Clinica e Metabolismo), specialista in nutrizione clinica. “In tutta la Sardegna siamo in tre ad essere assunti come specialisti in nutrizione clinica e nessuno di noi ha la possibilità di lavorare all’interno di un team multidisciplinare che, invece, sarebbe necessario per una presa in carico adeguata dei pazienti nutriti artificialmente”, spiega il dottor Carta. Ma non è tutto. “Non solo lavoriamo in strutture ambulatoriali, non in rete tra di loro, ma negli ospedali sardi non esistono reparti che abbiamo anche solo due o tre posti letto dedicati al ricovero di chi è in nutrizione artificiale. È una carenza che denunciamo già dal 1987 e che, ad oggi, continua a restare inascoltata”. Purtroppo gli ostacoli non finiscono qui. La vita di questi pazienti continua ad essere in salita anche quando le condizioni di salute sono stabili ed è possibile ritornare a casa. “In Sardegna il Sistema Sanitario Regionale non offre a tutti i cittadini in nutrizione artificiale parenterale le pompe per l’infusione domiciliare. Questo significa che chi non riesce ad accedere a service esterni che forniscono tali dispositivi, è costretto ad utilizzare il microgocciolatore restando letteralmente attaccato ad un palo – ovvero l’asta portaflebo – per tutto il tempo necessario alla nutrizione parenterale, che può raggiungere anche le 22 ore giornaliere. E se per queste persone è difficile muoversi dentro casa, figuriamoci pensare di uscire anche solo per una passeggiata”, evidenzia lo specialista.
Fortunatamente, qualcosa si sta muovendo: “La regione dovrebbe presto indire un bando per affidare ad un service esterno la distribuzione delle nutripompe parenterali a domicilio. Ma anche una volta terminata la gara di appalto sarà necessario sciogliere un altro nodo: chi prescriverà i presidi ai cittadini sardi se in tutta la Regione, tranne i nostri tre ambulatori, non esiste nemmeno un centro di riferimento e la prescrizione specialistica è la conditio sine qua non per ottenere la nutripompa a domicilio?”, chiede il dottor Carta. Si corre il serio rischio di finire in un circolo vizioso e di non risolvere la questione nemmeno mettendo a disposizione mezzi e denaro. È facile dedurre che potranno godere appieno dei propri diritti solo coloro che continueranno a curarsi fuori Regione. E chi come Simona non ha più le condizioni fisiche per affrontare una traversata dall’Isola alla terraferma? La risposta, almeno stando alla situazione odierna, è piuttosto scontata. “Attualmente in Sardegna ci sono, censiti, circa 1.500 pazienti nutriti artificialmente, tra nutrizione enterale e parenterale – racconta il dottor Carta -. Se si considera la vastità del territorio regionale, per poter permettere al medico nutrizionista di visitare a domicilio i propri pazienti, oltre che in ambulatorio, servirebbero almeno una ventina di specialisti”. All’appello ne mancano 17. “Ma non solo, perché anche i pazienti che vengono seguiti da centri extra regione, hanno comunque bisogno di monitoraggio clinico ed assistenza, per la quale non è pensabile debbano recarsi ciclicamente fuori regione”, aggiunge Carta.
“Se fossi stata seguita adeguatamente sono certa che ora non mi troverei in una situazione così critica: sotto morfina e allettata. Siamo stati istruiti a cavarcela da soli – aggiunge Simona – ma da soli non possiamo farcela”. Anche i caregiver hanno bisogno di aiuto: “La malattia di mia figlia progredisce e la mia età avanza – dice mamma Betty -. Nonostante tutto – conclude – ringrazio di avere una figlia che ogni giorno mi dà a forza di combattere per lei, perché posso dire che la mia vita ha un senso”.
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