Secondo le ultime stime ricavate dal Rapporto mondiale Alzheimer, sono 47 milioni le persone affette da una forma di demenza nel mondo e in Italia si calcolano più di un milione di malati (di cui 600mila circa con la malattia Alzheimer). Un fenomeno in aumento: i numeri parlano infatti di 9,9 milioni di nuovi casi […]
Secondo le ultime stime ricavate dal Rapporto mondiale Alzheimer, sono 47 milioni le persone affette da una forma di demenza nel mondo e in Italia si calcolano più di un milione di malati (di cui 600mila circa con la malattia Alzheimer). Un fenomeno in aumento: i numeri parlano infatti di 9,9 milioni di nuovi casi di demenza all’anno.
Iniziali segnali incoraggianti per il trattamento di persone affette da Alzheimer nella fase iniziale della malattia vengono da alcune procedure di riabilitazione cognitiva associate a stimolazione elettromagnetica del cervello. Di questo interessante e promettente tema parlerà il professor Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia all’Università Cattolica e direttore dell’Area neuroscienze della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli-IRCCS di Roma. L’occasione sarà il XIII Congresso Nazionale SINdem, l’Associazione Autonoma Aderente alla SIN per le demenze, che si svolge a Firenze dal 19 al 21 aprile.
Si tratta di tre giorni dedicati alla discussione e all’aggiornamento delle tematiche scientifiche e assistenziali legate alle demenze. «Ad oggi sappiamo che la malattia di Alzheimer è la più comune causa di demenza. Le forme iniziali sono segnali da tenere in considerazione per una diagnosi precoce della malattia – anticipa il professor Paolo Maria Rossini, che interverrà al congresso SINdem venerdì 20 aprile – . Accanto ad alcuni trattamenti farmacologici stiamo sperimentando anche procedure di riabilitazione cognitiva attraverso esercizi specifici e l’associazione con metodi di stimolazione elettromagnetica non invasiva del cervello: il metodo NeuroAD. Si tratta di un trattamento non invasivo che dura cinque giorni a settimana per sei settimane e che produce benefici misurati secondo scale standard internazionali – aggiunge il professore – che sono prolungati nel tempo: a sei mesi i soggetti in cura sono in una situazione migliore rispetto ai pazienti sottoposti a stimolazione placebo». Lo studio si è svolto su 33 pazienti con una forma lieve di Alzheimer ed è stato condotto in collaborazione con il Beth Israel Deaconess Medical Center, Harvard Medical School di Boston.