L’analisi del rapporto medico-paziente e la sua evoluzione a cura di Paolo Maria Fioravanti, specialista in Chirurgia Vascolare e Mario Santarelli, Direttore UOC Radioterapia Ospedale San Camillo de Lellis di Rieti
L’antico atteggiamento “paternalista”, che si fa risalire ad Ippocrate, era basato su una concezione etica che consentiva di agire o omettere di agire per il bene di una persona senza che a questa venisse richiesto l’assenso. Ciò presupponeva da un lato -medico- la competenza tecnica e dall’altro – paziente- una adesione acritica ai percorsi diagnostico-terapeutici. Dunque l’“alleanza medico-paziente” era un rapporto fiduciario con grave squilibrio di conoscenze. Il compenso, se così possiamo chiamarlo, era affidato fino a ieri alla scrupolosa applicazione dei principi di “beneficenza “ e di “non maleficenza” da parete del Curante. Poi “power /knowledge” (Foucault) . “empowerment” ( Domenighetti). “episthemic injustice” (Fricker) “ paziente-esigente “(Cavicchi): sotto questo fuoco incrociato il modello paternalistico classico soccombe, ucciso dalla logica dell’informazione, dalla crisi del rapporto fiduciario e dalla conseguente esplosione del contenzioso.
Il modello etico che si afferma in sua vece è quello del rispetto del principio di autodeterminazione del paziente; l’alleanza diviene relazione medico-paziente e necessita in ogni passaggio del consenso informato: “nessuna decisione su di me senza di me”. E’ questa la fine apparente del paternalismo. Apparente perché un paternalismo subdolo e molto meno benevolo sopravvive ancora oggi sotto mentite spoglie. La fine (apparente) del paternalismo in Italia è coincisa cronologicamente con un complesso procedimento a tutti noto come “aziendalizzazione della sanità”. Sotto questo nome possiamo, in estrema sintesi, riunire le varie riforme e riforme delle riforme intese a quantificare e razionalizzare i costi del SSN. Tale processo, da qualcuno sintetizzato in “medical Taylorism”, nell’intento in sé lodevole, di “misurare” , ”contabilizzare” e “standardizzare” le prestazioni sanitarie, ha trovato utile strumento nella EBM (Evidence Based Medicine) che, figlia della Epidemiologia Clinica e dei trial randomizzati controllati in doppio cieco, è stata a sua volta la Madre delle linee guida diagnostiche e terapeutiche, della Cochrane collaboration e – nelle sue applicazioni più intransigenti – della cura delle malattie piuttosto che dei malati, caso lampante di eterogenesi dei fini. Al proposito non molto tempo fa, sul British Medical Journal, Trisha Greenhalgh – già nota per essere approdata alla Medicina Narrativa dopo una lunga e proficua militanza nella EBM – poneva un quesito interessante: “Evidence based medicine: a movement in crisis ?” e sottolineava come “although ebm has had many benefits, it has some negative unintended consequences” giungendo alla conclusione che perché ogni singolo paziente possa avere il trattamento ottimale, la EBM deve essere “combined with contest and professional expertise”.
Inoltre, come corollario del processo di aziendalizzazione, a suo tempo è stato introdotto un contratto da “dirigenti “ per i medici del SSN. Strani dirigenti invero, ad autonomia limitata, che timbrano il cartellino e che sono tenuti a lavorare per obiettivi di budget aziendali seguendo linee guida elaborate dai più disparati soggetti, stando sempre molto attenti a non collidere con le linee programmatiche aziendali, pena la perdita del “rapporto di fiducia”. Di fatto i medici dipendenti del SSN, anche se classificati “dirigenti”, non sempre godono delle prerogative o della autonomia dirigenziale nell’espletamento del loro lavoro, anzi, per la grande maggioranza dei casi tali prerogative non sussistono proprio. Come ben specificato dalla Comunità Europea, i dirigenti medici italiani inquadrati nel SSN hanno un rapporto di lavoro regolato da un contratto che è precipuamente basato sull’orario di lavoro e non solo sui risultati. Essi sono a tutti gli effetti lavoratori dipendenti la cui “autonomia dirigenziale” riguarda esclusivamente la attività di diagnosi e di terapia. Tanto ciò è vero che essi non possono rifiutarsi di entrare in sala operatoria di garantire il servizio di guardia , di lavorare in corsia o in ambulatorio….
In questo humus professionale, ambiguo e vagamente mistificatorio, nasce e si sviluppa una figura inedita, il medico-chimera: un po’ clinico ( sempre meno) , un po’ contabile ( il numero delle prestazioni, i costi…), un po’ politico-sindacalista (assai attento alle posizioni politiche del presidente della Regione che ….nomina il Direttore Generale). La descrizione migliore di questo ibrido professionale la fa -con evidente riprovazione – la Magistratura mentre si accinge a condannare un Medico che pensava di potersi difendere asserendo di aver semplicemente rispettato le linee guida aziendali : “ [il medico chimera è]…quel medico che è tenuto al rispetto di direttive che sono in contrasto con le esigenze di cura del paziente, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico….” [Sentenza n. 8254/11 della Suprema Corte di Cassazione , IV sezione Penale]. E’ così che il cerchio si chiude: il medico abdica, il paziente esige, il disagio cresce. Nel rapporto medico-paziente si incrina la alleanza e si insinua la paura. La magistratura stessa interviene con un richiamo forte al recupero di una superiore professionalità.
E’ così che scoppia il conflitto tra l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità. Karl Jaspers è il medico e filosofo a cui dobbiamo la riproposizione novecentesca dell’idea di medico-filosofo introdotta da Ippocrate. Infatti il medico “ amante del sapere” è consapevole che “…giunti ai confini della medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza”. Secondo il filosofo esistenzialista i pilastri del modo di agire del medico sono due: la conoscenza scientifica e la abilità tecnica, da un lato [praxis e techne], e l’ethos umanitario dall’altro. Il presupposto del rapporto medico-paziente è che questi sono due esseri razionali che si uniscono per contrastare un processo naturale, riconoscendolo e curandolo. Ma se “la medicina si lascia sopraffare dalla esattezza”, con il proliferare di visite, analisi ed esami diagnostici e con l’aumento della tecnicità allora l’uomo viene visto come “un materiale da esaminare” e viene mortificata l’idea del medico capace di trovare una chiara separazione fra quanto è razionalmente efficace e quanto è indifferente o dannoso.
A questo proposito giova ricordare che “…un medico che applica solo meccanicamente la capacità della sua disciplina, non può alleviare in alcun modo l’infermità, seppure lieve..” (H.G.Gadamer,). Ancora Gadamer: “noi stessi siamo natura ed è la natura in noi che sa mantenere il nostro equilibrio interno, mediante il sistema organico del nostro corpo, contemporaneamente in ordine e pronto alla difesa… così non dovremmo mai dimenticare che, se si ottiene la guarigione, il medico ed il malato devono essere concordi ad attribuire il merito alla natura”. Un altro momento critico nel rapporto medico-paziente si può riconoscere in quello che possiamo definire “ l’abuso di empatia”. Infatti la capacità di mettersi nei panni dell’altro e di condividerne gioie e dolori essendo personalmente animato da un moto di compassione viene oggi considerato da molti un valido rimedio per sanare la rottura della antica alleanza. Per questa ragione, specie dopo la scoperta dei neuroni specchio secondo i più la capacità empatica dovrebbe entrare nel bagaglio professionale di ogni medico. In realtà per empatia si intende correttamente la abilità di percepire e sentire le emozioni di un’altra persona così come lei le sente, indipendentemente dal condividere la sua visione delle cose e, ovviamente, il vissuto delle specifiche situazioni. Quale migliore viatico per la medicina difensiva attiva! : sei preoccupato? Vuoi fare un esame per stare più tranquillo? Ti capisco e te lo prescrivo immediatamente…siamo entrambi più sicuri.Era un esame indispensabile? Espone inutilmente alle radiazioni ionizzanti ? Forse… , ma ora medico e paziente condividono empaticamente la soddisfazione di una “esigenza”. Naturalmente tutto ciò è legale e difficilmente confutabile, ma – come sappiamo da 2500 anni – la legalità senza lealtà diviene sopraffazione.
Ed è proprio in questa declinazione che la medicina difensiva si rivela essere una riproposizione assai insidiosa del vecchio paternalismo, oltretutto subdolamente deprivato del principio di non maleficenza. Qualora un medico “coraggioso” si spinga ad aggiungere all’atteggiamento empatico la volontà di aiutare veramente quella persona, allora si raggiunge lo stato psicologico meglio noto come simpatia, l’impegno cioè ad alleviare e risolvere e non solo comprendere ed assecondare i “sentimenti negativi” che il suo simile malato sta provando. Quel medico “coraggioso” eviterà accuratamente di sottoporre il paziente “simpatico” ad esami che non siano assolutamente utili per una corretta diagnosi e si assumerà la responsabilità di “medicalizzare “ la vita del suo assistito solo in caso di assoluta necessità, applicandosi con coscienza alla pratica del pensiero critico e facendo un ampio uso- forse inconsapevole – del “rasoio di Occam” e dedicando infine tempo, competenza e pazienza a persuadere il suo paziente a seguirlo nella ricerca del bene (beneficenza e non-maleficenza in un colpo solo).
L’atteggiamento ad un tempo difensivo e reattivo assunto dalla classe medica in risposta all’incremento del contenzioso medico-legale con richieste di risarcimento talvolta totalmente ingiustificato (è da tempo in corso tra la popolazione una epidemia di paranoia querulans) si presta ad alcune considerazioni. In primo luogo i costi . Nell’orgia di cifre che continuamente vengono pubblicate ed aggiornate sembra che l’eccesso di pratiche diagnostiche e terapeutiche disposte dai medici per tutelarsi dal rischio di una richiesta di risarcimento comporti una spesa annua di molti miliardi di euro solo nel nostro Paese. In secondo luogo, non ci si può nascondere che il passaggio successivo alla medicina difensiva, l’overtreatment –overdiagnosis, non si giustifica con la sola paura della denuncia per malpractice. Nel 2009 S. Brownlee sistematizzò l’idea che “more medicine does not lead to better health… it leads to higher costs and worse health” in un volume ( “ Overtreated: : why too much medicine is macking us sicker and poorer”, Bloomsbury) dedicato non solo all’overtreatment-overdiagnosis ma anche alla medicalizzazione della società, all’errore medico ed a tutto ciò che è eccessivo nella medicina moderna, ivi comprese le pressioni esercitate sui medici da parte dei pazienti, degli ospedali e dell’industria. Giocano inoltre ruoli non secondari la domanda di salute indotta, la ricerca del profitto, il conflitto di interessi da parte di chi redige le linee guida, la asimmetria conoscitiva e la mancata informazione dei pazienti sui potenziali pericoli degli esami diagnostici e dei trattamenti non strettamente necessari.
L’evoluzione di big pharma in bad pharma
Per di più è noto da tempo che le ricerche sponsorizzate dall’industria evidenziano molto più spesso risultati favorevoli ai farmaci o ai dispositivi prodotti dallo sponsor degli studi promossi da enti pubblici o no-profit. A sua volta Marcia Angell ( già editor in chief del NEJM e vittima di big pharma per le sue posizioni contro lo strapotere del mercato ) sostiene “Clinicians know privately that results can be jiggered”. A questo dobbiamo infine aggiungere che i clinici di solito i sono riluttanti ad accettare i risultati negativi dei lavori scientifici e le loro implicazioni nella pratica della professione. A questo punto manca un solo passaggio per chiudere il cerchio: la evoluzione di big pharma in bad pharma. Abbiamo visto che gli studi finanziati dall’industria hanno maggiori probabilità di produrre risultati che favoriscono il farmaco o il presidio dello sponsor . E’ anche noto che i ricercatori possono tranquillamente nascondere , cioè non pubblicare, gli studi con risultati negativi o semplicemente non compiacenti. Questa situazione fa si che nelle revisioni sistematiche , rassegne imparziali di tutti i dati sperimentali disponibili in letteratura , gli studi che dimostrano dati positivi sono in maggioranza.
Il problema è che le linee guida vengono stilate sulla base di gradi di attendibilità desunti dalle revisioni sistematiche a loro volta basate solo sugli studi pubblicati . Il problema è che le linee guida regolano l’uso di farmaci e dispositivi nella pratica clinica. Il problema è che talvolta si perpetra in maniera programmata e scientificamente inappuntabile l’inganno del medico e del paziente. La fioritura di critiche alle pratiche indotte dalla medicina scientifica basata sulle cosiddette evidenze affonda le radici nei primi anni 2000, quando si è cominciato ad introdurre il concetto di disease mongering e da più parti si sono evidenziati i rischi ed i benefici degli screening per alcuni tipi di neoplasie molto diffuse nonché la dubbia utilità di alcune – certamente non tutte ! – campagne vaccinali. Nel 2006 Michael Porter, economista (!) di Harvard, proponeva una idea splendida nella sua apparente ovvietà: regolare le scelte della politica sanitaria sulla base del “ valore aggiunto per il paziente”. Gli esiti finali sono la vera misura della qualità delle cure, come sintetizzato in una formula: valore delle cure = esito raggiunto/costo del ciclo di cure. In altre parole, la decisione di impiegare determinati trattamenti piuttosto che altri viene basata esclusivamente sulla loro possibilità di raggiungere gli esiti migliori per il paziente. Il raggiungimento di questi esiti – dimostra Portman – è l’indicatore della validità delle cure e della economicità del sistema. Perché ciò avvenga è necessario misurare di un dato percorso medico l’intero ciclo di cura considerando fase acuta, complicanze correlate, riabilitazione ed eventuali recidive. Pur con i limiti legati ad una maggiore complessità gestionale , questa “medicina basata sul valore delle cure “misurata tramite indicatori di esito rappresenta un innegabile passo avanti rispetto alla “ medicina basata sulle evidenze “ che detta linee guida e protocolli basati su indicatori di diagnosi e di processo.
I frutti di questa emergente linea di pensiero , “morbida” ed attenta al valore delle cure – e non solo al costo – sono oramai numerosi, dalle campagne promosse da prestigiose riviste scientifiche quali “less is more “ del JAMA e quella “too much medicine “ del BMJ, a iniziative quali “best care at lower cost” dell’Institute of Medicine e l’ormai celebre “ choosing wisely “ dell’ABIM ( American Board of Internal Medicine Foundation), di cui in Italia hanno dato notizia anche quotidiani e settimanali a larga diffusione, specie dopo la nascita di “slow medicine” che ne raccoglie e rappresenta i contenuti nel nostro Paese. In tale modo si sta aprendo anche da noi un ulteriore problema nel rapporto medico-paziente: mettere in dubbio il valore delle linee guida e la opportunità di molti comportamenti codificati – proprio quando si vuole dare loro per legge la forza di precetti ! – è cosa a cui il medico è abituato, ma opinione pubblica e mezzi di stampa hanno poca dimestichezza e nessuna simpatia per la logica scientifica, la quale procede per “trial and error” ed implica che un dato si deve considerare vero solo fino a prova contraria, motivo per cui le costruzioni della scienza come è noto, “poggiano su palafitte piuttosto che su solide basi” ( K. Popper). E’ dunque chiaro che trovare rimedio a questa condizione di profonda crisi relazionale è impresa ardua ed allo stesso tempo conditio sine qua non per poter ricostruire una vera alleanza tra medico e paziente. Come pure è urgente che la classe medica recuperi quel patrimonio di credibilità gravemente leso da orribili ed eticamente assai discutibili “esibizioni” mediatiche all’insegna dell’audience ad ogni costo. Tuttavia siamo profondamente convinti che in questo passaggio fondamentale molto dipenda dalla capacità della classe medica di aprirsi alle nuove esigenze etiche rinunciando, senza paura, ad alcune rendite di posizione oramai superate dalla Storia.
Allo stato attuale è possibile arricchire le considerazioni sulle difficoltà del rapporto tra Curato e Curante con una buona notizia. Il difficile inquadramento nosografico di uno dei disturbi psicofisici attuali più controversi, il cosiddetto long covid, ha consentito una inedita “alleanza” in cui i pazienti hanno potuto generare ipotesi sui meccanismi patogenetici di questa sindrome in maniera paritaria con i Curanti e i Ricercatori . Questa condizione è stata resa possibile attraverso la realizzazione di nuova rivista, il patient-generated Hypotheses Journal for long-covi and associate conditions. Si tratta di una rivista a tutti gli effetti medico-scientifica scritta direttamente dai pazienti il cui primo numero è uscito da pochi mesi. Non possiamo non leggere questo passo come un enorme progresso nella dinamica del rapporto medico-paziente con un forte incentivo alla ricerca qualitativa, giusto nel momento in cui affiorano – come abbiamo visto – i limiti della ricerca quantitativa. Forse sarà questo il passaggio decisivo verso l’effettivo empowerment dei pazienti , finalmente in un clima di ritrovata fiducia.
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