Contributi e Opinioni 10 Marzo 2022 12:32

«Da infermiere dico: proteggiamo i nostri ammalati da un sistema che non li riconosce come persone nella loro interezza»

Di Sergio Calzari, infermiere terapia intensiva Istituto Cardiocentro di Lugano, Svizzera, e creatore di postintensiva.it
di Sergio Calzari, infermiere terapia intensiva Istituto Cardiocentro di Lugano, Svizzera
«Da infermiere dico: proteggiamo i nostri ammalati da un sistema che non li riconosce come persone nella loro interezza»

Le grandi rivoluzioni culturali della storia sono un “dietro front” del pensiero comune dominante. E l’avere un pensiero comune dominante è probabilmente un vantaggio evolutivo. La coscienza comune infatti non si deve preoccupare di ciò che è giusto o sbagliato. E questo riduce lo sforzo cognitivo o di giudizio creando un vantaggio economico dovuto da un risparmio di risorse. Il rischio, però, è una narcotizzazione di massa, dove il giudizio perde il proprio senso.

Esiste poi un pensiero dominante causato dalla rassegnazione… È l’accettazione passiva di quello che non va…È il pensiero del “tanto non cambia nulla”, del “si è sempre fatto così”. Questo pensiero, figlio soprattutto di un immobilismo codardo, fa accettare all’individuo ingiustizie e obbrobri.

Mischiamo adesso la narcotizzazione con la rassegnazione e ne abbiamo una perdita del senso del giusto ed una poca voglia di cambiamento.

Pensiamo ora al nostro Servizio sanitario nazionale: il guardiano e custode del nostro diritto alla salute (almeno così dice l’articolo 32 della nostra Costituzione). Dicono sia uno dei migliori al mondo e probabilmente sarà vero. Credo però che partecipare a competizioni del genere sia abbastanza scivoloso, perché le regole del gioco sono spesso scelte da gente che appartiene (nel senso che lo gestisce) a quello stesso sistema.

È come se le case automobilistiche decidessero quale auto è la migliore confrontando solo i motori e dimenticandosi dell’abitacolo. L’automobilista al volante vuole starsene comodamente seduto, in una posizione che non lo stanchi e che magari lo rilassi. E forse questo è per lui la cosa più importante.

Io, infermiere che ha fatto parte del motore del Servizio sanitario nazionale italiano, mi sono accorto che manca qualcosa. Manca l’attenzione all’abitacolo, manca la voglia di far star sedute comode le persone, di accoglierle, di facilitare loro la vita. Abbiamo un motore potente… È vero, alle volte si ingolfa, ma è potente. Ma il resto?

Penso ad un anziano solo (ma anche ad un padre lavoratore) che deve sottoporsi ad un esame diagnostico… Si reca dal curante che compila una ricetta, poi va in ospedale a prenotare l’esame al cup (appuntamento che gli verrà dato chissà quando). Finalmente, arrivato il suo turno, torna in ospedale a eseguire l’esame. Poi ci ritorna per ritirare il referto e quindi nuovamente dal curante per mostrarglielo.

E noi, narcotizzati e rassegnati, accettiamo il triste andirivieni senza fiatare. E non ci viene neppure in mente di opporci a questo stato di cose. Non ci viene in mente di proporre soluzioni più snelle…«perché tanto non cambia e si è sempre fatto così».

Penso a chi è ricoverato nei nostri ospedali, a chi deve vivere o convivere con una malattia. In famiglia quando uno è ammalato gli si offrono le cose migliori, lo si coccola, si cerca di mitigarne la sofferenza stando con lui o preparando qualcosa di buono da mangiare. Certo, a casa non siamo dottori…ma diventiamo curanti. Questi comportamenti non faranno guarire la malattia, ma cureranno la persona. E il malato, sentendosi accudito, sentendo la solidarietà e la vicinanza dei propri cari, sicuramente soffrirà di meno.

E cosa succede nei nostri ospedali? Quanta importanza viene data alla persona? Quanta importanza viene data al fatto che quella persona possa mangiare dei cibi gustosi, possa restare in contatto con i propri cari, avendo ad esempio a disposizione degli spazi adatti?

Quanta importanza viene data alla comunicazione col malato? Che fastidio quando sento (per fortuna non sempre) alcuni medici e infermieri dare del tu agli ammalati in modo indiscriminato, soprattutto agli anziani con demenza (se non fossero anziani e se non avessero una demenza si darebbe loro del lei).

Che fastidio quando entra in stanza un sanitario per la prima volta e non si presenta! E a noi, narcotizzati e rassegnati, magari non viene neppure in mente di chiedere «scusi, lei chi è? Come si chiama?». Come se il nome delle persone (curanti o degenti), la loro individualità avesse perso di importanza.

Perché in moltissime (per non dire quasi tutte) terapie intensive gli orari di visita dei familiari sono così limitati? Perché si parla dappertutto di terapie intensive aperte e noi abbiamo le terapie intensive chiuse più chiuse al mondo?

I nostri ammalati gravi non hanno diritto di avere i propri cari accanto? E i familiari non hanno diritto di stare accanto tutto il tempo che vogliono al proprio caro morente? Questo “privilegio” è concesso solo nei paesi anglosassoni? E noi, nuovamente, narcotizzati e rassegnati, accettiamo il triste destino senza fiatare, incapaci di ribellarci ad un sistema che sembra immutabile.

Vorrei dire, vorrei gridare ai colleghi infermieri e ai signori medici e sanitari: «Difendiamo i nostri ammalati, proteggiamoli da un sistema che non li riconosce come persone nella loro interezza». Lavoriamo assieme a loro per un servizio sanitario che abbia certamente un ottimo motore, ma anche un abitacolo confortevole.

E allora c’è bisogno di una rivoluzione culturale, di una nuova umanizzazione delle cure. Bisogna uscire dalla narcotizzazione e infermieri, medici e malati devono, assieme, (ri)costruire un servizio sanitario più accogliente, più semplice da fruire, più umano.

 

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