Dal questionario emerge che la maggior parte degli assistenti sociali con contratti di lavoro precari lavorano in servizi dedicati alle misure di contrasto alla povertà. Gazzi (CNOAS): «Non dobbiamo, non possiamo permetterci di ritrovarci a mani nude contro i disastri. E purtroppo il Covid-19 ha soltanto aggravato una situazione già difficilissima»
A domicilio, da casa o in ufficio, ma sempre presenti anche se con Dpi spesso insufficienti e senza alcuna indicazione di priorità per affrontare l’emergenza. La maggior parte degli assistenti sociali con contratti di lavoro precari lavorano in servizi dedicati alle misure di contrasto alla povertà: è questa la sintesi che arriva dall’analisi dei dati del questionario sul lavoro e la situazione di questi professionisti durante la fase più acuta della pandemia.
«Dalle risposte di 16mila dei 44mila assistenti sociali iscritti all’Ordine emergono indicazioni importanti per il futuro. Indicazioni che chi ha il compito di fare le leggi e governare il Paese non può non tenere conto – dice Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Assistenti sociali -. Se soltanto il 34,6% degli assistenti sociali impegnati nel contrasto alla povertà ha un lavoro stabile e se il 33% ha un contratto che dura meno di un anno, come possiamo intervenire in questa immane crisi? Se soltanto il 12,2% dichiara che la struttura per cui lavora sa affrontare le emergenze e dispone di piani ad hoc, come possiamo aiutare i più fragili che diventano fragilissimi? Non si commettano altri errori con i decreti in approvazione: non si aumenti la precarietà degli assistenti sociali, si predispongano servizi che non chiudano mai: disabilità, malattia mentale, povertà assoluta, solitudine totale, sono emergenze quotidiane».
I dati che emergono dalle risposte al questionario dicono gli assistenti sociali non hanno mai smesso di esserci: il 22% ha lavorato esclusivamente dal proprio domicilio; il 41,5% ha alternato il lavoro da remoto e il lavoro nella sede del servizio; il 28,4 è andato regolarmente in ufficio.
Dicono anche che soltanto la metà di quelli che hanno lavorato anche a contatto diretto con le persone, nel comparto Sanità, avesse dispositivi di protezione individuale (DPI) sufficienti, mentre nel 49,6% dei casi i DPI non erano adeguati o non erano disponibili.
Drammatica la risposta su come si è affrontata l’emergenza: quasi il 49% dei professionisti non ha avuto indicazioni utili ad orientare interventi e priorità. Soltanto i territori già colpiti in passato da crisi collettive sono riusciti a rispondere in modo più tempestivo e coordinato. Soltanto il 12,2% dei rispondenti ha dichiarato che nell’organizzazione in cui lavora sono presenti assistenti sociali specializzati nel lavoro in situazioni di emergenza.
«Le misure adottate per far fronte alla pandemia sanitaria hanno comportato sfide che non conoscono precedenti nella storia del Paese – conclude Gazzi -. Per la prima volta le scelte per il contenimento del contagio hanno implicato la necessità di mantenere il distanziamento fisico dalle persone, sfidando dunque le modalità ordinarie e l’utilizzo di alcuni degli strumenti cardine del servizio sociale. Non dobbiamo, non possiamo permetterci di ritrovarci a mani nude contro i disastri. E purtroppo- conclude – il Covid-19 ha soltanto aggravato una situazione già difficilissima».