di Emilio Piccione, Emerito di Ginecologia e Ostetricia Università di Roma Tor Vergata e Cattolica NSBC di Tirana
Una cosa, inequivocabilmente, è certa. E cioè, che quando il Botticelli lavorò alla realizzazione di quella tempera su tela di lino che Gli fu commissionata dalla famiglia Medicea e che è, appunto, la “Nascita di Venere” , il Suo pensiero fosse ben lungi dall’immaginare che il tema della nascita, in particolare quello della sua specifica ed ottimale modalità di assistenza, sarebbe stato incentrato, dopo tanti secoli, su aspetti ben diversi da quelli che Egli volesse rappresentare nella sua opera e che avrebbero costituito oggetto di dibattito e di attenzione perfino istituzionale, nonché materia di confronto/scontro tra opposte linee di pensiero, vale a dire movimenti e associazioni femministe, da un lato, e categorie mediche, nonché partiti politici, dall’altro.
Perché il messaggio che il Maestro desiderava trasmettere con il suo capolavoro che poi è diventato, non per caso, un’indiscussa icona del nostro Rinascimento, era quello di celebrare attraverso forme allegoriche il significato dell’Amore ,come energia e forza motrice della natura e della Bellezza, nella sua purezza e semplicità. Così’, la “Nascita di Venere” che originata dalla spuma del mare avanza verso terra su una valva di conchiglia, non fa altro che assumere un senso vero di sacralità, proprio per l’emozione intellettuale che riesce a suscitare.
La scenografia tutta, e questa è l’altra fine percezione che si capta dall’analisi di ciò che viene espresso dall’Artista fiorentino, è poi avvolta da un’aria di serenità così profonda e silenziosa dove l’omaggio floreale di rose antiche, margherite e fiordalisi per chi è appena nata, vuole festeggiare il più emozionante evento della vita.
Non solo, ma vuole inneggiare anche al modo con cui Lei, Venere, protagonista della scena, viene al mondo. Così come ogni donna vorrebbe tanto che avvenisse, con quella magia che solamente sa di forza dolce e di meravigliose sensazioni!
Il sogno che ci stiamo raccontando, e che è già importante per averlo solo immaginato, si scontra, ahimè, oggigiorno con la realtà ben diversa delle strutture ospedaliere, dove la nascita da evento misterioso può diventare un evento sanitario.
Una realtà, quella della nascita, che nei tempi è stata sempre via via invocata nel dover essere quanto più “umanizzata”, in un percorso che ogni donna deve attraversare verso quello che viene atteso come un evento così gioioso e di cui custodire un indimenticabile ricordo.
Dove il desiderio per una donna di dare alla luce “naturalmente” il proprio figlio, è vero, si trasforma in genere in una solida realtà; ma dove, a volte, anche il trauma di singole esperienze mal vissute, può annullare ogni valido obiettivo, perché non va a rispondere a quelle lecite aspettative che si erano fissate.
Fatti, questi ultimi, che possono essere vissuti e testimoniati dalle donne come atti che esprimono comportamenti ed atteggiamenti che sono percepiti come irrispettosi ed offensivi. Ma non sempre, fortunatamente! Proprio per le migliaia e migliaia di medici, ostetriche, operatori socio-sanitari che ogni giorno fanno del proprio meglio lavorando con impegno, passione e competenza.
Perché, secondo quanto raccontato da chi si dichiara essere stata vittima di abusi, fisici e/o verbali – cioè di violenza cosiddetta “ostetrica” – al momento della nascita, ”basta a volte solo una semplice parola detta male da un operatore che è distratto, ad inficiare ed umiliare la coscienza di una donna che in quel momento sta vivendo la sua fragilità”. Esperienze, queste, che possono essere interpretate dalle donne stesse perfino come atti di violenza, perché sono a volte così traumatici da far dire a chi ha vissuto queste inaspettate, negative sensazioni, di non volere mettere al mondo, addirittura, mai più alcun figlio. E questo, in tempi in cui si discute, preoccupati, di denatalità in aumento, certamente è un aspetto che, mai e poi mai, dovrebbe essere immaginato!
Sull’analisi di questo “fenomeno” che sembrerebbe ancor più diffuso, perché sommerso, rispetto a quanto riportato da chi ne analizza le specifiche dinamiche, ci si interroga, oggigiorno, sempre più. E non solo negli spazi del pubblico dibattito, ma anche a livello delle più alte istituzioni internazionali( quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Consiglio d’Europa). Perfino alcune fra le più prestigiose sedi universitarie del mondo intero hanno cominciato a proporre il tema della cosiddetta “violenza ostetrica” quale oggetto di studio e di analisi antropologica culturale. E se altri paesi al mondo catalogano da un punto di vista legislativo la “violenza ostetrica” come violenza di genere, nel nostro paese nulla di fatto ancora è stato realizzato in tal senso che tuteli le donne vittime di questo tipo di violenza.
Se, tuttavia, ciò che si dibatte a livello delle massime istituzioni internazionali è di rilevante importanza per analizzare e circoscrivere sempre più questo fenomeno (sono già di trenta ani fa le raccomandazioni ufficiali dell’OMS sulle pratiche appropriate e su quelle sconsigliate o da evitare nell’assistenza al travaglio, al parto e al postparto), un significato essenziale, e non possiamo non convenirne tutti, ciascuno con il proprio ruolo, è che al di là delle leggi dello Stato, del sapere e delle più aggiornate conoscenze, il punto nodale e irrinunciabile per la risoluzione del fenomeno è il ritrovare, innanzitutto, quel fondamentale ed equilibrato confronto che sia basato sulla osservazione della cosiddetta “etica del rispetto”. Quell’etica che fa suo quell’astratto codice di valori e di buone norme che non sono scritti da alcuna parte, ma che devono essere assolutamente e necessariamente vigenti nel percorso tutto della nascita. Soprattutto in uno spirito di condivisione piena tra chi è protagonista dell’evento nascita, la donna, perché questo le appartiene, e quanti a pieno ritmo lavorano nei luoghi di assistenza alla nascita stessa.
Nei vocabolari della lingua italiana, per chi ne vuole approfondire il significato, è scritto che rispettare equivale a “riconoscere i diritti, il decoro e la dignità altrui astenendosi quindi da ogni parola o azione che possa offenderli”. Cosi, il rispetto come sostantivo sta ad indicare la “disposizione ad astenersi da atti offensivi e lesivi impliciti nel riconoscimento di un diritto.” Parole queste che appaiono come irrinunciabili in una “gestione rispettosa di tutto il percorso della nascita”, dove è avvertita fortemente una efficace comunicazione basata sul pieno senso della fiducia e del coinvolgimento più completo.
Se non si instaura questo tipo di approccio iniziale che è centrale tra la donna, e la sua famiglia tutta, e il sistema che l’assiste nel delicatissimo momento del suo più importante evento riproduttivo, allora non possiamo più aspirare ad “accompagnare la nascita in modo umano e sicuro”. Questo è il primo passaggio culturale su cui tutti dobbiamo convenire. Passaggio culturale, questo, senza il quale non possiamo assolutamente pretendere di fermare i lamentati abusi fisici e verbali, gli interventismi immotivati e l’aggressività nell’assistenza. Senza un rapporto di fiducia e di un coinvolgimento nelle decisioni da dover prendere non possiamo immaginare alcun progetto costruttivo in quell’evento così intenso che è la maternità.
Si ritorni, allora, a parlare, in modo più coinvolgente e pieno di serenità di “donna in stato interessante” o “in dolce attesa” piuttosto che di donna incinta o in gravidanza. Ed ancora, che si ritorni ad immaginare “spazi di maternità “ e non più di indifferenti “Unità operative complesse di Ginecologia e Ostetricia”. Insomma, riappropriamoci di tutta quella terminologia di una volta che sa tanto di tranquillità sicura e che è lungi da quei freddi e tecnici appellativi che oggigiorno, incutono il più delle volte immotivate soggezioni e tensioni preoccupate.
Sarà cosi spontaneo per le donne ripristinare la loro centralità nel momento in cui stanno “dando alla luce” o stanno “mettendo al mondo” il proprio figlio. Recitando il loro ruolo da protagoniste, senza paura alcuna di perdere l’ autonomia e la capacità di decidere liberamente del proprio corpo , e senza alcun impatto negativo sulla qualità di vita e sulla salute riproduttiva.
Forse non a caso , nella Sua ingegnosa e meravigliosa immagine della “Nascita di Venere”, il grande Artista fiorentino volle rappresentare la dea Venere nella sua pura nudità, quasi ad esaltare la bellezza femminile nel senso della sua purezza e nobiltà di animo.
Una bellezza a cui è riservata la centralità della scena in un’armonia così perfetta in cui è una gioia venire al mondo con rispetto e tanto amore.
Sandro Botticelli non fu pittore di cose, ma di idee. Speriamo che contemplando, tutti noi, la “Nascita di Venere” possano “nascere” altrettante idee che riportino “ il bello “ al centro delle dinamiche e dei processi creativi che interessano la nostra società.
Primo tra tutti, certamente, quello della nascita.
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