Se il paziente non riesce a dimostrare il nesso causale, il risarcimento da parte del medico non è dovuto
Sul tema del nesso causale tra azione del medico e danno subito dal paziente abbiamo già scritto in precedenza. A farci tornare sull’argomento è una recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, dello scorso 16 febbraio 2022.
Tutto ebbe inizio con una mastoplastica additiva, ossia un intervento di chirurgia estetica realizzato allo scopo di aumentare e riproporzionare il seno. L’operazione ebbe luogo nel 2011, presso una struttura ospedaliera di Reggio Emilia. La paziente, evidentemente non soddisfatta – se pur a distanza di anni – dell’esecuzione dell’intervento, richiese nel 2019 un accertamento tecnico preventivo (ATP) nei confronti sia della struttura sia del chirurgo estetico. L’obiettivo era quello di individuare una precisa colpa medica connessa alla realizzazione dell’intervento e – conseguentemente – di poter quantificare il danno subito.
La consulenza di parte avrebbe accertato piuttosto chiaramente la presenza di effettivi inestetismi, connessi alla differenza di forma e volume post-operatoria delle due mammelle. Alla luce di questo, la signora chiamò dunque in giudizio sia il medico sia il centro ospedaliero, chiedendone la condanna al pagamento di una somma a risarcimento.
La struttura medica si costituì in giudizio, sostenendo la tesi che non vi fu alcuna colpa medica alla base degli inestetismi attualmente presenti. Di tale possibile esito la clinica medica aveva infatti adeguatamente informato la paziente, in quanto complicanza ampiamente descritta nella letteratura scientifica di settore. Il medico chirurgo non si presentò in giudizio.
Esponendo le motivazioni del rigetto della richiesta della paziente, i giudici del Tribunale di Reggio Emilia espongono in maniera piuttosto chiara il tema del cosiddetto “onere della prova”. Nel merito infatti, i giudici evidenziano come il ciclo causale vada suddiviso chiaramente in due parti. Da un lato, è il paziente che deve dimostrare il nesso causale tra l’insorgere del problema e il comportamento del professionista sanitario. Dall’altro – e in seguito all’eventuale evidenza del nesso – spetta invece al medico dimostrare di aver seguito i protocolli “a regola d’arte” o quantomeno le “best practices”. Ne segue che se la causa del danno rimane non certa, la richiesta di risarcimento deve essere rigettata.
La questione viene pertanto risolta dai giudici di merito basandosi proprio su quanto è attestato dall’accertamento tecnico preventivo. Esso viene infatti giudicato quale “[…] frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato.” In particolare, nella relazione si afferma che non è possibile sostenere – sulla base della documentazione fornita – che gli inestetismi siano conseguenza di una errata procedura operatoria da parte del chirurgo. Piuttosto parrebbe che tali asimmetrie siano conseguenza di una “contrattura capsulare”, un evento – si dice – “prevedibile ma non prevenibile” dai sanitari. E per il quale è stato doverosamente raccolto un adeguato consenso informato. Rimane peraltro ovvio – sottolinea l’ATP – che le risultanze della consulenza risentono del fatto che sono comunque passati nove anni dai fatti.
Dalla vicenda emergono due aspetti degni di essere sottolineati. Il primo è la necessità – da parte del presunto danneggiato – di dotarsi di strutture argomentative robuste, al fine di far emergere il nesso causale tra il danno e la condotta medica. L’altro è – per il professionista sanitario – l’esigenza di tutelarsi con criterio sul piano della responsabilità civile professionale, facendosi seguire da team competenti e professionali come SanitAssicura. Infatti, nonostante tutto, l’errore può essere sempre dietro l’angolo. Una buona assicurazione può pertanto far dormire sonni sereni.
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