Contributi e Opinioni 6 Luglio 2022 10:15

Quando una complicanza è prevedibile e prevenibile, tuttavia…

di Muzio Stornelli, Formatore e consulente sanitario legale-forense

Quando una complicanza è prevedibile e prevenibile, tuttavia…

La cura e l’assistenza dei pazienti è da sempre un processo variegato, multidisciplinare e multiprofessionale, al contempo non privo di complicanze o insuccessi. Tutte le sfaccettature appena descritte spesso riemergono all’interno di sentenze, la cui lettura può essere utile al fine di conoscere e riscoprire eventuali profili di responsabilità a carico degli operatori sanitari.

Questa volta vogliamo occuparci di un caso singolare, che ha come protagonista una donna, deceduta a causa di “tromboembolia polmonare massiva da trombosi della vena femorale con blocco del flusso polmonare, impedimento della pompa cardiaca e collasso cardiaco destro”, il tutto dovuto tra l’altro, ad una gestione non corretta di un dispositivo vascolare, addirittura posizionato nella vena femorale. Ma ripercorriamo i fatti!

Una paziente, il giorno 3 maggio 2012 viene ricoverata presso un reparto di terapia intensiva a causa di una insufficienza respiratoria acuta, in paziente obesa, con disturbi psichiatrici costretta ad allettamento prolungato. All’ingresso, viste le condizioni critiche si procede all’intubazione ed al posizionamento di un catetere venoso centrale esattamente nella vena femorale destra; viene inoltre prescritta dapprima una terapia farmacologica con eparina 4000ui a basso peso molecolare, sostituita poi con un dosaggio pari a 6000ui. Al settimo giorno di degenza (10 maggio 2012), visto il miglioramento delle condizioni, la paziente (dopo essere stata estubata), viene trasferita al reparto di medicina interna, continuando però la terapia anticoagulante. Dopo circa 24 ore i familiari decidono di far dimettere la signora al fine di trasferirla presso il loro nosocomio di fiducia, nello specifico nel reparto di psichiatria con diagnosi di sindrome depressiva. Nella lettera di dimissione il primo dei medici indagati per omicidio colposo dava atto del pregresso blocco respiratorio della paziente, del ricovero in rianimazione e medicina, nonché della presenza di un catetere venoso centrale nella vena femorale destra, senza però rilasciare alcun documento sanitario riportante la sintesi clinica della paziente, né tantomeno le indicazioni relative alla gestione del suddetto dispositivo. Chiaramente dopo aver visitato la signora, tenuto conto della complessità del caso, aldilà delle competenze di uno psichiatra, il primario decide di richiedere una consulenza internistica, eseguita dall’altro medico indagato (accusato anche lui di omicidio colposo). Quest’ultimo, si sofferma unicamente sugli aspetti dell’artrite reumatoide, impostando la relativa terapia farmacologica senza alcun riferimento alla presenza del dispositivo vascolare.

A distanza di 12 giorni dal posizionamento, il giorno 15 maggio il catetere femorale viene rimosso applicando, da parte del personale infermieristico, un bendaggio compressivo risultato subito fastidioso e causa di dolore per la paziente. Quattro giorni dopo un altro internista visita di nuovo la paziente (a causa dell’edema declive dell’arto inferiore destro), dando atto che:

  • la paziente riferisce il posizionamento di un laccio alla base della coscia destra da due giorni;
  • l’arto è caldo, gonfio e non dolente.

Viene subito eseguito un ecodoppler venoso dell’arto inferiore destro che evidenzia una trombosi venosa profonda alla femorale destra senza coinvolgimento della safena e della poplitea.

A questo punto il dosaggio della terapia anticoagulante passa ad 8000ui. Il giorno 20 maggio viene richiesta una consulenza chirurgica vascolare (in quanto la paziente lamenta febbre e dolore alla coscia destra) eseguita in data 21 maggio, con il consiglio di eseguire un ulteriore accertamento presso il centro emostasi e trombosi per screening e di ripetere ecodoppler. Infine, il 22 maggio a seguito di dolore e impotenza funzionale dell’arto inferiore destro si richiede rx urgente per sospetta embolia polmonare in trombosi vena femorale. Il giorno 23 maggio 2012 alle ore 6:30 la donna muore.

La causa della morte, indicata dal Consulente tecnico del Pubblico Ministero, dai consulenti delle parti civili e dai consulenti degli imputati, è stata: “Tromboembolia polmonare massiva da trombosi della vena femorale con blocco del flusso polmonare, impedimento della pompa cardiaca e collasso cardiaco destro”.

A fronte di un epilogo così drammatico, il giudice di primo grado ravvisa una condotta censurabile in capo ai medici:

  • il primo per aver omesso di trasmettere in sede di dimissioni della paziente dal reparto di medicina il quadro clinico complessivo, in particolare OMETTENDO di indicare il piano terapeutico in atto, con riferimento alla profilassi eparinica in relazione al FICC (catetere centrale inserimento femorale), e alle disposizioni relative alla gestione del catetere stesso;
  • il secondo perché quale consulente internistico ometteva di valutare il FICC occupandosi solo dell’artrite reumatoide, non menzionando nulla in relazione alla rimozione e alle cautele da adottare né alla terapia di prevenzione eparinica.

Si assume infatti che la sospensione della terapia eparinica e la mancata gestione del catetere abbia avuto valore cruciale (quindi nesso di causalità) nel determinismo della trombosi venosa femorale e della grave tromboembolia polmonare che ha causato la morte della donna.

Nelle conclusioni dei giudici risulta evidente la condotta “colposa” dei medici sopra citati:

la paziente è immobilizzata, dimessa da un giorno da un reparto intensivo, reduce da un episodio acuto di insufficienza respiratoria, affetta da una grave forma di obesità, portatrice di un catetere venoso in vena femorale dell’arto inferiore destro. La trombosi venosa che ha determinato la morta si è creata proprio nel tratto venoso traumatizzato dalla presenza del FICC e che tale complicanza trombotica era PREVEDIBILE E PREVENIBILE e poteva essere evitata o comunque ridotta nei suoi effetti ove non fosse stata interrotta, per i comportamenti colposi posti in essere con sequenza causale, dagli imputati, la terapia eparinica dalle dimissioni fino al 19 maggio, quando è stata ripristinata a seguito della consulenza del chirurgo vascolare.

Ne deriva che i due medici sono stati condannati per omicidio colposo, essendo tra l’altro entrambi portatori di una posizione di garanzia, e quindi era loro dovere impedire l’evento.

Ancora una volta un insieme di errori, violazioni, mancati controlli hanno contribuito al verificarsi di un evento sentinella. A questo punto, diventa improcrastinabile diffondere capillarmente in tutte le realtà di cura e di assistenza le fondamenta del risk management, incentivando ulteriormente la realizzazione di percorsi formativi i quali, partendo dalle analisi delle cause profonde e dagli altri strumenti reattivi, tipici della clinical governance, possano portare maggiore consapevolezza a tutti gli addetti ai lavori.

 

 

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