Ci occupiamo di un caso di responsabilità del medico specialista. Per la Cassazione questi non può considerarsi un mero esecutore
La prescrizione di un esame diagnostico invasivo, eseguito da un medico specialista, può – anzi, in certi casi, deve – essere messa in discussione criticamente da quest’ultimo, quando le circostanze lo rendono necessario. Questo è ciò che emerge da una recente sentenza della Cassazione Penale Sez.4 (n.30051 del 7/07/2022). Con tale giudizio gli ermellini precisano gli ambiti di responsabilità del medico specialista. Vediamo meglio i dettagli.
Nel marzo del 2017 ad una novantenne signora polesana fu prescritta d’urgenza dal medico di famiglia una colonscopia, a causa di un persistente forte dolore all’addome destro. L’esame diagnostico venne eseguito da un medico chirurgo professionista presso una casa di cura privata. Durante l’ispezione endoscopica, purtroppo, la paziente subì una perforazione di un tratto intestinale, che generò una peritonite stercoracea diffusa. Trasferita d’urgenza in altro reparto, la paziente morì la sera stessa.
Primo grado ed appello condannarono il medico chirurgo per omicidio colposo (Art.589 Codice Penale) ad otto mesi di reclusione. Ad esso venne imputata sia una colpa generica, basata sulla sua negligenza, imprudenza e imperizia, sia una colpa specifica. Quest’ultima risultava dovuta a:
Fu proprio la “scadentissima toilette intestinale” – così riporta la Cassazione – a produrre probabilmente, per assai scarsa visibilità, una manovra sbagliata con l’endoscopio, che portò alla lacerazione parietale e alla conseguente peritonite.
Tra le motivazioni del ricorrente, sottolineiamo la tesi secondo la quale i verdetti dei giudici di merito si baserebbero sostanzialmente su un pregiudizio dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero. Costoro, provenienti dalla sanità pubblica, sarebbero stati condizionati nell’esprimersi dal fenomeno, molto diffuso nel pubblico, della cosiddetta “medicina difensiva“. Sinteticamente, come riportato in sentenza, «[q]uando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa». Sarebbe stata questa dimensione culturale, ampiamente diffusa e accettata nel pubblico, a condizionare le consulenze, portando a valutare negativamente la responsabilità del medico specialista. Il quale avrebbe «[…] accettato il rischio di effettuare una colonscopia su di una paziente novantenne, con intervento sostanzialmente ambulatoriale, all’interno di una clinica privata […]»: esattamente il contrario dell’approccio “difensivista”.
Inoltre, il ricorrente sottolinea come il proprio ruolo, nella vicenda, non poteva non essere che quello del “mero esecutore”: «[l]’imputato, in altri termini, poteva e doveva ritenere che la colonscopia fosse indicata, nel caso di specie, siccome prescritta dal medico di medicina generale».
Il giudizio della Cassazione sostanzialmente conferma quelli di primo grado e di appello. In particolare, esso si sofferma sul delineare proprio gli ambiti di responsabilità del medico specialista. «[U]no specialista […] deve necessariamente procedere prima di eseguire l’indagine endoscopica sia all’inquadramento anamnestico e clinico per la corretta esecuzione della indagine […] sia alla valutazione dell’adeguatezza dell’esame richiesto rispetto alle patologie sospettate, alla sintomatologia lamentata e agli esiti di eventuali esami che hanno preceduto quello richiesto […]». In altre parole, lo specialista non può essere considerato un “mero esecutore” di indagini da altri prescritte. «La logica conclusione dei giudici di merito è che, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore per tutto il processo, l’anamnesi e la valutazione dell’esame, anche sotto il profilo clinico, spettava allo specialista, sia per una corretta esecuzione dello stesso, sia per la necessità di informare la paziente e di raccogliere un valido consenso e questo a prescindere dalle eventuali richieste di sanitari, che avessero indirizzato all’esame».
Alla luce di quanto emerge dal parere della Corte, un professionista sanitario non può esimersi dal valutare l’attività portata avanti dagli altri colleghi, controllandone la correttezza ed eventualmente correggendo prescrizioni considerata errate. Non si tratta, in tal caso, di eccesso di zelo, bensì di concreta “cooperazione multidisciplinare“. Ciononostante, commettere errori è sempre possibile. Per questo può risultare opportuno strutturare una tutela assicurativa congrua, magari approfittando dell’ottima consulenza che può offrirci lo staff di SanitAssicura.
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