«Troppi giovani in fuga dal settore pubblico, fondamentale migliorarne la competitività» sottolinea il presidente del Segretariato Italiano Giovani Medici. E sul Decreto Calabria: «Ruoli confusi e poche tutele, rischiamo che gli specializzandi facciano da tappabuchi»
Italia, due Luglio 2019. Sono migliaia, sono giovani, sono armati di competenze e speranze. Qualcuno ha da sempre un sogno nel cassetto, qualcuno quel sogno l’ha maturato in corso d’opera. Qualcuno accarezza l’idea di andare all’estero, qualcuno spera di non esservi mai costretto. Sono i giovani medici italiani che oggi si sono cimentati nei test di accesso alle Scuole di Specializzazione 2018-19, il primo vero banco di prova successivo alla formazione universitaria. Ad accomunare tutti loro, la sensazione di un salto nel vuoto e l’obiettivo, da qui a qualche anno, di non restare intrappolati nel tanto temuto “imbuto formativo” e di non contribuire a ingrossare le fila del precariato. Tra l’esigenza di far fronte alle carenze di organico e l’approvazione di soluzioni a livello istituzionale non prive di insidie, Sanità Informazione ha raccolto il parere di Emanuele Spina, presidente del Segretariato Italiano Giovani Medici (SIGM) e specializzando in Neurologia presso l’Università di Napoli Federico II.
Il test di accesso alla Scuole di Specializzazione, così com’è concepito oggi, andrebbe ulteriormente modificato?
«Sei anni fa ho fatto parte di quel movimento che ha chiesto a gran voce il concorso nazionale per le specializzazioni di area medica: c’era l’esigenza di rispondere ad un sistema che si stava ammalando, fatto di favoritismi e concorsi pilotati. Adesso, con il test su scala nazionale, abbiamo di fronte un’altra criticità: a parte le condizioni spesso non paritarie tra i colleghi che fanno il test nelle varie macro-sedi, c’è il problema – e si rivelerà drammaticamente nel corso degli anni – dell’imbuto formativo. Se è vero infatti che ora le condizioni sono uguali per tutti, è vero anche che non a tutti sarà data la possibilità di specializzarsi o comunque di accedere alla formazione post laurea.
Dicevamo appunto l’imbuto formativo. In che modo e su quali livelli sarebbe necessario intervenire per porre fine a questa criticità?
«Nel corso degli anni si è accumulato un numero tra i sei e i diecimila colleghi, molti dei quali sono dovuti andare all’estero e molti dei quali non sono ad oggi all’interno di un percorso formativo di specializzazione o di formazione specifica in medicina generale. Siamo di fronte a una gobba demografica, che è il frutto della pletora medica degli anni Settanta. L’idea di aumentare il numero dei posti per i corsi di laurea non è una soluzione, perchè gli aspiranti medici che oggi accedono ai corsi di laurea si specializzeranno potenzialmente fra una decina d’anni, e non risponderanno quindi alle prossime carenze. Anzi, un aumento indiscriminato rischierebbe di generare una nuova pletora medica tra quarant’anni, lasciandoci ciclicamente al punto di partenza. Il Sistema Sanitario Nazionale dovrebbe invece evolvere in un’ottica non meramente ospedaliera ma di valorizzazione delle cure primarie. Il dato della carenza di medici ospedalieri dovrebbe essere ripensato sulle reali esigenze del nostro Ssn e della popolazione, includendo i colleghi bloccati nell’imbuto formativo (che teoricamente basterebbero a soddisfare questo fabbisogno così rimodulato) e adottando misure per colmare il gap accumulato nel corso degli anni. Il numero di contratti messo a disposizione, preso su analisi annuale, rispetta il numero dei neolaureati dello scorso anno, il problema riguarda invece tutti gli esclusi negli anni passati e tutti quelli che ritentano il test di specializzazione. Uno dei limiti di questo test, infatti, è proprio quello di poter essere ripetuto magari da chi non è soddisfatto della scelta o che ha dovuto ripiegare su una specializzazione “di comodo”, e questo determina una vera e propria emorragia di contratti.
Il Decreto Calabria, recentemente approvato, propone, tra le altre misure, una soluzione per ovviare alla carenza di personale. Qual è l’opinione del SIGM?
«Il Decreto Calabria ci preoccupa per due motivi: il primo motivo è dato dal fatto che dei medici in formazione specialistica saranno inseriti in un contesto ospedaliero non solo con responsabilità e mansioni che vanno al di là delle capacità acquisite, ma anche con inquadramenti contrattuali non chiari. Non vogliamo che lo specializzando venga mandato in prima linea senza tutele previdenziali, nè che venga utilizzato come tappabuchi. Ci sembra una norma che in realtà nasconde semplicemente una riduzione della durata del percorso di formazione specialistica. In secondo luogo, pensiamo alla popolazione: oggi la formazione è confinata nelle strutture universitarie, e i cittadini che vi accedono sanno che potrebbero anche trovarsi davanti uno specializzando, seppur guidato dai tutor. Negli ospedali invece, si sa di trovare esclusivamente pool di specialisti ad erogare le prestazioni sanitarie. Con l’approvazione di questa norma ci saranno anche negli ospedali medici non completamente formati. Per non parlare del fatto che la firma di un contratto a tempo determinato subordina lo specializzando alla decisione della direzione generale dell’azienda ospedaliera o sanitaria; e se le direttive impongono di rimpinguare l’organico in strutture piccole o periferiche, il rischio è che ad essere confinati lì sarebbero proprio gli specializzandi, con ripercussioni sul completamento adeguato della propria formazione».
La carenza di personale in che misura si fa sentire oggi sul territorio della Campania?
In questo momento stiamo vivendo lo sblocco delle assunzioni e del turn over: sono ricominciati i concorsi e, anche rispetto ad altre regioni d’Italia, non vanno deserti. I problemi principali, non solo in Campania ma in tutto il Paese, si hanno per la rete di emergenza urgenza e per la copertura nei Pronto Soccorso. Altro problema sofferto è poi la scarsa appetibilità del settore pubblico. Spesso si preferisce lavorare in strutture convenzionate piuttosto che pubbliche a causa dei turni massacranti e delle scarse tutele e in generale di una minore competitività rispetto al settore privato. Una competitività di cui deve necessariamente riappropriarsi il settore pubblico, per poter continuare a garantire nel migliore dei modi un principio fondamentale della nostra Costituzione: il diritto alla salute.