di Zairo Ferrante (Medico Radiologo Arcispedale Sant’Anna Ferrara), Elisa Mandolesi (Medico di Medicina Generale ASL Ferrara), Martino Ardigó (Universidade federale de Mato Grosso do Sul), Agostino Panajia (Campagna “2018 PHC Now or Never” e MMG ASL Ferrara)
Il presente articolo ha lo scopo di stimolare la riflessione sulla necessità di superare la frammentazione in ambito sanitario, in particolare la frammentazione tra medici di famiglia e medici specialisti.
Tale riflessione è scaturita dal dialogo tra medici di medicina generale, medici di organizzazione delle cure primarie e radiologi, rispetto delle recenti normative sull’introduzione di alcuni elementi di diagnostica nell’ambulatorio di medicina generale, nel contesto dello sviluppo delle Case della Salute (CdS).
Nello scenario sanitario contemporaneo, caratterizzato da una transizione demografica, sociale, e in ultima analisi epidemiologica, assistiamo a un profondo cambiamento dei bisogni di salute della comunità, sia per quanto riguarda le patologie croniche, sia per quanto riguarda le patologie acute, come dimostra l’epidemia di SARS-CoV-2.
A queste trasformazioni deve corrispondere un altrettanto profondo cambiamento del paradigma dell’assistenza e dell’organizzazione dei servizi. A partire dalle raccomandazioni dell’OMS fino alle normative nazionali, come dimostra l’istituzione delle CdS, esiste un consenso diffuso rispetto al ruolo che il territorio riveste in questo nuovo scenario, soprattutto rispetto alla necessità di ampliare e valorizzare la capacità del sistema sanitario di promuovere interventi di promozione della salute e di prevenzione che siano integrati, longitudinali e basati su una presa in carico delle dimensioni biologiche, percettive e sociali della salute.
Un contesto ad alta prevalenza di patologie croniche si caratterizza, infatti, per la necessità di una presa in carico “lifelong” dei pazienti, agendo contemporaneamente sia sulle variabili biologiche, sia su quelle comportamentali, definite dai valori individuali, dalle percezioni e dalla cultura, così come sui vincoli materiali e sociali che interferiscono con la promozione e protezione di un livello di salute adeguato per individui e comunità. Inoltre, la recente emergenza legata alla pandemia di SARS-CoV-2 ha messo in luce come la centralità del territorio non riguardi solo le cronicità, ma coinvolga indistintamente tutti i bisogni di salute.
Il cambiamento di paradigma sanitario e di organizzazione dei servizi si rende necessario a partire dal fatto che nel territorio, come precedentemente sottolineato, il numero e la complessità dei determinanti di salute in gioco é molto elevato, non si esaurisce nel solo comparto sanitario, ma necessita di un approccio intersettoriale, strettamente legato alla risolutività degli interventi.
In quest’ottica la frammentazione degli interventi assistenziali rappresenta uno degli ostacoli principali, soprattutto per quanto riguarda servizi sociali, sanitari, attori comunitari, famiglie e pazienti.
Tale frammentazione persiste nonostante lo sforzo importante realizzato nell’ultimo decennio per promuovere le CdS come luogo dell’integrazione tra settori, servizi e comunità.
Se il potenziamento della medicina del territorio deve passare, come accennato in premessa, da una valorizzazione delle dimensioni non biomediche alla base dei processi salute-malattia, questo non deve avvenire a scapito della dimensione biomedica. È opportuno ampliare l’integrazione dei servizi territoriali costruendo una rete multisettoriale che abbia come obiettivo l’aumento della risolutività degli interventi anche mediante il trasferimento di prestazioni tradizionalmente erogate in altri settori all’interno della rete di Primary Health Care che ha come centro della produzione dell’assistenza il lavoro in equipe dentro la cornice delle CdS.
In questo senso una riflessione importante dovrebbe essere rivolta alle potenzialità e ai rischi presentati dall’implementazione della diagnostica territoriale, legate alle opportunità che lo sviluppo tecnologico offre. D’altra parte è importante sottolineare come lo stesso sviluppo tecnico e scientifico negli ultimi decenni abbia fatto lievitare il ricorso a indagini diagnostiche senza un sostanziale beneficio in termini di salute della comunità, quando non abbia addirittura generato una overmedicalizzazione, ponendo un serio problema in termini di prevenzione quaternaria.
È importante quindi interrogarsi rispetto a quanto l’introduzione di tecnologie diagnostiche nella medicina del territorio possa tradursi in un’iniziativa che riaffermi paradossalmente la presunta centralità dell’approccio bio-riduzionista, delle conoscenze specialistiche e dell’ospedale, o in processo che rafforzi realmente il territorio, ampliandone la prospettiva attraverso l’incorporazione dei determinanti sociali, che abbia in vista la risolutività degli interventi, i bisogni di salute della popolazione, la capacitazione delle reti di servizi e risorse per la salute e delle persone nei loro luoghi di vita. Altrettanto importante è comprendere come tra questi due scenari esista una sottile linea di separazione e quanto l’affermazione del secondo scenario dipenda da una chiara impostazione di Primary Health Care dei servizi.
In quest’ottica un primo intervento è il superamento dell’organizzazione gerarchica tra livello primario, secondario e terziario, con la conseguente frammentazione che ne consegue, e l’adozione di un modello organizzativo basato sulle reti integrate di salute.
Il modello de-gerarchizzato dovrebbe prevedere forme organizzative centrate su equipe funzionali allargate, nelle quali mediante l’utilizzo di opportune tecnologie, sia possibile costruire processi di lavoro collaborativi interprofessionali e intersettoriali improntati: all’incorporazione della diagnostica di primo livello nelle reti assistenziali territoriali; ad aumentare l’appropriatezza nel ricorso alle indagini diagnostiche per immagini; a implementare l’utilizzo di indagini diagnostiche di primo livello da parte dei medici di medicina generale; a implementare l’utilizzo di indagini diagnostiche specialistiche erogabili sul territorio; e infine, ad agire in chiave di empowerment delle reti assistenziali, dei pazienti e comunità al fine di interagire sulle dimensioni non biologiche che agiscono da induttori di domanda di servizi non correlata a un reale bisogno di salute.
Tale approccio è fondamentale anche alla luce della necessità di un rapporto dialettico tra comunità, livello primario e specialistico. Non si tratta semplicemente di spostare il setting di erogazione di alcuni servizi, bensì di iniziare a operare per generare reti assistenziali che abbiano come obiettivo la salute e non l’erogazione di singole prestazioni. Per questo motivo la medicina del territorio, oltre a strutturarsi in equipes e in rete, dovrebbe essere fortemente radicata nel contesto, capace di leggere i bisogni di salute specifici dei vari segmenti di popolazione che compongono una determinata comunità, con particolare attenzione ai soggetti e ai gruppi vulnerabili, alla inverse care law e alle disuguaglianze.
La medicina territoriale dovrebbe dialogare con gli attori comunitari, valorizzarne le risorse e, in maniera partecipata, costruire un piano di intervento territoriale singolare, con l’obiettivo di promuovere la salute rispettando le singolarità e le specificità di ogni comunità. Questo modello richiama dunque la centralità delle CdS (siano esse ad alta, media o bassa complessità) come punto di raccordo della rete assistenziale e il Distretto come luogo dell’organizzazione del territorio.
Nella sovrapposizione tra territorio distrettuale e rete assistenziale orizzontale, le equipe e i team di cure primarie possono essere intesi come gruppi di lavoro dai confini variabili che devono essere in grado di creare relazioni anche con il livello specialistico e ospedaliero, se non, quando necessario, includerli nel team territoriale. In questo senso si pensa alla possibilità di costruire ad hoc una sorta di team allargato, che coinvolga anche lo specialista, ma per funzioni specifiche della medicina territoriale.
L’attenzione non è pertanto centrata sulla semplice erogazione dei servizi, ma sulla costruzione di relazioni professionali e umane capaci di generare il valore aggiunto, favorendo l’emergere di metacompetenze tra le diverse discipline, le diverse professioni ed i diversi settori. Esempi virtuosi sono presenti a livello internazionale come dimostra l’esperienza brasiliana dei Nuclei di Appoggio alla Salute della Famiglia, che hanno la funzione di raccordare le conoscenze specialistiche al territorio non con una funzione meramente assistenziale nei confronti dei pazienti, ma con l’obiettivo di garantire un processo effettivo di referenza e contro referenza, di consulenza clinica, formazione ed empowerment delle reti assistenziali territoriali, formazione ed educazione dedicata alla popolazione, consulenza ai fini di facilitare la riorganizzazione delle reti di cura territoriali.
Alla luce di quanto appena detto, riteniamo sia giunto il momento di avviare sperimentazioni pilota di integrazione orizzontale e costruzione di reti assistenziali territoriali orientata a modelli di Comprehensive PHC e che abbiano come obiettivo la Salute della comunità e non l’erogazione di prestazioni.
Fermo restando che le possibili aree di intervento-sperimentazione dipendono dal contesto, abbiamo provato a ipotizzarne alcune relativamente all’integrazione tra la medicina generale e la radiologia:
Fondamentale sarà per i professionisti coinvolti nelle CdS la capacità di mettere in atto processi di formazione permanente basata sulle prassi, per implementare e ritagliare gli interventi in base ai bisogni effettivamente presenti in un territorio.
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