Contributi e Opinioni 28 Settembre 2020 16:42

«Tamponi Covid sui bambini: troppe prescrizioni che non tengono conto dei rischi intra-procedurali»

di prof. Filippo Festini, Professore Associato di Scienze Infermieristiche generali, cliniche e pediatriche all’Università degli Studi di Firenze

di Filippo Festini, Professore Associato di Scienze Infermieristiche generali, cliniche e pediatriche, Università di Firenze
«Tamponi Covid sui bambini: troppe prescrizioni che non tengono conto dei rischi intra-procedurali»

Gentile redazione,

mi chiamo Filippo Festini e sono Professore Associato di Scienze Infermieristiche generali, cliniche e pediatriche (MED/45) all’Università degli Studi di Firenze. Da quasi trenta anni svolgo l’attività clinica di Infermiere esclusivamente in ambito pediatrico.

Negli ultimi tempi la mia attività clinica consiste nell’effettuare i tamponi nasali e orofaringei per il Covid-19 in un punto prelievo drive-through. Negli ultimi giorni sono rimasto sconcertato dal numero sorprendentemente alto di tamponi che vengono prescritti dai pediatri di libera scelta su bambini di ogni età.

Ciò che mi ha sorpreso in primo luogo è che nessun genitore – e sottolineo, nessuno, su centinaia di tamponi che ho eseguito – ha ricevuto informazioni sui concreti rischi operativi intrinseci alle procedure del tampone rino- e oro-faringeo per i bambini al di sotto dei 4-5 anni, cioè in quella fascia d’età in cui il bambino è oppositivo e non collaborativo nei confronti di qualsiasi procedura invasiva. Tali rischi, ben noti, attuali e non semplicemente teorici, sono i seguenti:

  1. Rischio di rottura del tampone e conseguente inalazione. I normali tamponi in commercio sono provvisti di un punto di rottura progettato perché l’operatore possa spezzare il bastoncino dopo il prelievo ed inserirlo nella provetta per l’invio in laboratorio. Molti colleghi hanno già riportato casi di tamponi che si sono rotti nel cavo orale di bambini non collaboranti a causa della loro ovvia oppositività. La stampa internazionale ha recentemente riportato il caso di un bambino deceduto a seguito delle procedure necessarie alla rimozione di un pezzo di tampone inalato e rimasto bloccato nelle vie respiratorie.
  2. Rischio di lesioni alla mucosa nasale, orale e faringea. Anche in questo caso, molti colleghi infermieri, ma anche la stampa nazionale, hanno riportato moltissimi casi di bambini oppositivi o non collaboranti che hanno riportato lesioni alle mucose durante l’esecuzione del tampone. Ovviamente tali lesioni rappresentano dei loci minoris resistentiae per altre infezioni delle vie respiratorie potenzialmente gravi. A comprendere la concretezza di tale rischio basterebbe constatare che il diametro della narice, ad esempio, di un lattante è più piccolo di quello della punta del tampone standard e che quindi per inserirlo nella cavità nasale la narice deve essere forzata. Nei giorni scorsi la stampa internazionale ha riportato il caso di un neonato deceduto a seguito di un sanguinamento inapparente causato dall’esecuzione del tampone.
  3. Il trauma psicologico per il bambino e l’allarme sociale causato alle famiglie (che nella quasi totalità dei casi risulta poi infondato…). In questi casi non si tratta per la verità di rischi: questi due eventi si verificano immancabilmente nella totalità dei casi. La letteratura sui danni, talora a lungo termine, provocati dal trauma psicologico da procedura nei bambini prescolari è così vasta e nota che è superfluo citarla. Inoltre, è noto che il tampone nasofaringeo o orofaringeo è una delle poche procedure invasive per le quali non esistono tecniche cognitivo-comportamentali o farmacologiche locali efficaci a ridurre la paura ed il dolore nel bambino che vi si sottopone.

Quando, come è mio dovere professionale e deontologico, spiego ai genitori i rischi della procedura sopra descritti, essi invariabilmente mi riferiscono di non esserne stati informati dai PLS e di non aver avuto l’opportunità – come è loro diritto – di discuterne insieme al curante per arrivare ad una decisione consapevole e partecipata.

Molti genitori mi hanno riferito che la prescrizione di una procedura così invasiva e rischiosa è avvenuta in moltissimi casi senza che il PLS abbia visitato il bambino ma semplicemente basandosi su sintomi vaghi o clinicamente poco specifici riportati dalle madri; le quali nella maggior parte dei casi non le avrebbero neppure ritenute meritevoli di attenzione da parte del PLS e non le avrebbero neppure portate alla sua attenzione se non vi fossero state costrette dalla necessità di far rientrare il bambino a scuola, perché respinto dalla stessa sulla base del giudizio di personale privo di competenze e non qualificato a valutare i segni e i sintomi del bambino ed il loro significato.

In altre parole, ho potuto costatare dal racconto delle madri che si sta verificando con preoccupante frequenza una catena decisionale surreale:

  • il bidello o altro personale senza alcuna competenza in ambito medico ritiene che il bambino abbia segni o sintomi riconducibili al Covid-19;
  • la madre, pur ritenendo che tali sintomi siano secondo la propria esperienza del tutto irrilevanti (non sto a citare la letteratura scientifica che ha chiarito quanto sia sensibile e specifica la percezione della madre riguardo alla salute del bambino – quantomeno più di quella di un bidello…) è costretta a riferirli al PLS;
  • in un numero sconcertante di casi il PLS, senza visitare il bambino e dunque rinunciando a verificare se i sintomi rilevati dal bidello siano veri e significativi, prescrive il tampone. Pare che ai genitori venga detto che “sono costretti” a prescrivere il tampone ma non viene loro chiarito sulla base di quale norma generale o interna. Di sicuro, però è difficile credere che qualcuno costringa il PLS ad astenersi dal valutare se i sintomi che la madre è costretta a riportare siano realmente rilevanti da un punto di vista clinico.

Il risultato finale – senza troppo esagerare – è che, in assenza di un filtro clinico effettuato dal PLS, il tampone viene molto spesso eseguito a seguito del giudizio clinico di un bidello, non condiviso dalla madre e approvato senza riscontri oggettivi dal pediatra.

Di fronte a un processo decisionale del genere (che, ripeto, mi viene ripetuto in modo invariato da centinaia di madri che portano i figli a fare il tampone), dai miei colloqui con le famiglie emerge un diffuso stato d’animo di frustrazione e di incredulità per un processo decisionale che dovrebbe avere al centro il giudizio clinico del PLS e la partecipazione informata della famiglia ma che percepiscono come distorto e patologico.

Oltre a ciò che ho appena riportato, ho anche potuto constatare – con mio grande sconcerto – numerosi casi di prescrizioni di cui mi è stato veramente impossibile comprendere il razionale clinico.

L’esempio più eclatante è stato quello di un lattante di 40 giorni allattato al seno, senza alcun segno clinico, negativo agli screening neonatali, sano e con accrescimento regolare, il cui padre era tornato dalla Lombardia (senza alcun sintomo) dove si era recato per lavoro. La neomadre per scrupolo ha chiesto al PLS se fosse necessario adottare una qualche precauzione e il PLS ha indicato di fare il tampone a tutti e tre i membri della famiglia, incluso il piccolo lattante. Considerato che nessuno dei genitori presentava alcun sintomo né aveva patologie croniche o degenerative, che la famiglia era composta da loro tre soltanto e non erano presenti in casa soggetti fragili (anziani o malati cronici) e che il bambino aveva contatti ravvicinati solo con la mamma, che senso aveva farle fare una procedura così invasiva e rischiosa prima di sapere se fossero positivi i genitori? E se anche poi la madre fosse risultata positiva, a cosa sarebbe servito fare il tampone alla piccina? Essendo allattata al seno e costantemente a stretto contatto con la mamma è praticamente certo che sarebbe risultata positiva anche lei. E se fosse risultata positiva la piccolina, a cosa sarebbe servito saperlo, dato che non esiste un trattamento preventivo e l’unico provvedimento da adottare è un’attenta osservazione?

Purtroppo, devo riferirle che di fronte a episodi, come questi, di assenza di una reale indicazione clinica per l’esame invasivo (episodi che tra l’altro corrono tra le famiglie col passaparola alla velocità della luce) le famiglie mi dicono sempre più spesso di essersi convinte che il vero motivo della prescrizione del tampone al loro figlio fosse stata solo la volontà del PLS di non correre rischi legali. Un PLS mio amico mi ha confidato che nel suo caso è proprio così: li prescrive perché “se poi succede qualcosa” non vuole passare guai. Questa è evidentemente pura e semplice medicina difensiva.

Il numero abnorme di tamponi che vengono prescritti dai PLS e quanto mi viene riferito dai genitori è evidentemente indice di qualcosa che non va in questo processo e che deve essere rivisto urgentemente.

 

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