Il presidente dell’associazione si dice contrario all’abolizione dell’accesso programmato alle facoltà di Medicina senza l’aumento delle borse di specializzazione. Guicciardi ha dubbi anche sul sistema utilizzato in Francia, con uno sbarramento alla fine del primo anno: «Sorgerebbe il problema della trasparenza e dell’equità. Anche la Francia lo sta rimettendo in discussione»
«Bisogna rivedere questo benedetto numero chiuso, che non è più adeguato ai tempi». Sono le parole del ministro della Salute Giulia Grillo, intervenuta nuovamente sull’annoso dibattito che riguarda l’accesso programmato ad alcune facoltà universitarie, Medicina inclusa. Immediate le reazioni di sindacati e associazioni di categoria, che hanno ribadito la necessità di aumentare le borse di specializzazione, e non di abolire il numero chiuso. Perché a mancare sono gli specialisti, non i medici.
Tra questi, c’è anche Stefano Guicciardi, presidente di FederSpecializzandi: «La riforma del numero chiuso non deve essere fatta come spot o slogan elettorale», dichiara a Sanità Informazione, sottolineando la sua posizione contraria all’apertura indiscriminata del percorso formativo. «Il nostro non è un no a prescindere – precisa Guicciardi – ma sono le attuali condizioni che rendono insostenibile questa proposta. Se venissero finanziate più risorse per le specializzazioni, se venissero creati ambienti universitari idonei, se si ragionasse anche su come riformare in toto la formazione, allora si potrebbe anche parlare di un allargamento dell’ingresso e di una rimodulazione degli accessi, ma così no».
C’è poi un discorso logistico, che secondo Guicciardi va tenuto in considerazione: «L’anno scorso c’erano 67mila candidati al test di accesso per circa 10mila posti. Senza questo filtro, le università sarebbero chiamate ad accogliere più del sestuplo degli studenti che accolgono oggi. Non ci sono abbastanza aule, se non si vuole che le lezioni vengano fatte negli stadi; non ci sono abbastanza docenti, se si vuole fare didattica di qualità; sarebbe impossibile organizzare i laboratori e le esercitazioni previsti già dal primo anno, per non parlare di eventuali momenti intorno al letto del paziente, dove non possono esserci tante persone. Ed è vero – continua Guicciardi – che c’è il diritto allo studio, ma c’è anche il diritto alla qualità dello studio. Se non si prevedono dei correttivi per affrontare questi problemi, non si può parlare di abolizione del numero chiuso, e senza la giusta proporzione tra laureati e contratti di formazione specialistica il sistema andrà al collasso».
Tra le tante proposte di superamento dell’attuale sistema di accesso, il modello francese è quello che ha ricevuto maggiore sostegno. Prevede uno sbarramento a numero programmato alla fine del secondo semestre, che blocca la strada all’80% degli studenti. Un sistema che la stessa Francia sta rimettendo in discussione, e che non convince nemmeno Guicciardi: «Se da un lato le difficoltà logistiche al primo anno rimarrebbero, dall’altro sorgerebbe il problema della trasparenza e dell’equità».
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«È vero che l’attuale test è perfettibile – prosegue Guicciardi – ma essendo nazionale e uguale per tutti sicuramente presenta maggiore obiettività e standardizzazione. Se invece viene stabilito che solo chi ha una determinata media alla fine del primo anno può iscriversi al secondo, si dà molto potere alla discrezionalità dei professori. Se un docente, ad esempio, vuole ostacolare o agevolare il percorso di uno studente, può, in linea teorica, abbassargli o aumentargli la media in maniera arbitraria, e con un numero elevato di studenti anche un voto può fare la differenza. Insomma, ci sono tanti elementi che ci portano a dire che il modello francese al momento è un po’ rischioso. Piuttosto, bisognerebbe investire in programmi di orientamento strutturati prima del test, che facciano comprendere meglio cosa significhi concretamente studiare medicina e fare il medico, preparando gli aspiranti studenti ai sacrifici che dovranno affrontare. Guardiamo con interesse ad alcune esperimenti in tal senso promossi anche dalla FNOMCeO».
Il punto focale, per tirar le somme, è quindi l’aumento dei contratti di specializzazione, perché «le carenze di organico frutto di una programmazione sbagliata iniziata un decennio fa iniziano a farsi sentire», commenta Guicciardi. I nodi stanno venendo al pettine, e tra pensionamenti, quota 100 e medici che vanno all’estero, il rischio che i nostri ospedali si ritrovino senza specialisti è dietro l’angolo.
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