L’Italia ferma ad un Regio Decreto del 1933. Ad ottobre 2018, Pierpaolo Sileri (M5S) ha presentato un disegno di legge in tema disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica
Una sala settoria di 400 metri quadri, dotata di un sofisticato sistema di filtrazione dell’aria che consente di svolgere le attività di dissezione in completa sicurezza, situata nel cuore del dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’università di Bologna. È qui che studenti e specializzandi vivono la loro prima esperienza di dissezione su un corpo umano in carne ed ossa. Una pratica che, nel corso dei secoli, è stata più volte messa in discussione: esercitata nell’antica Grecia, all’inizio del III secolo a.C., è stata poi vietata dalla legge romana, tanto che grandi medici, come Galeno, furono impossibilitati a lavorare su cadaveri umani. Il proibizionismo è stato poi abolito nella Roma pagana, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Oggi, divieti in materia non ce ne sono, ma per gli aspiranti camici bianchi quella di studiare l’anatomia umana o effettuare interventi chirurgici direttamente su un cadavere umano è un’esperienza unica, o quasi. «L’università di Bologna, assieme a quella di Padova – ha spiegato Lucia Manzoli, direttrice del dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Ateneo bolognese – è la sola ad essere dotata di una sala settoria, in cui si effettuano dissezioni su cadaveri umani». Oltre a questo ambiente, il dipartimento è dotato di una sala anatomica di circa 100 metri quadri con 4 tavoli settori, un’antisala e gli spogliatoi con servizi, una sala embalming (d’imbalsamazione, ndr), una cella di refrigerazione a 4°C e una cella di congelamento a -18°C.
«Il complesso – ha continuato Manzoli – è stato inaugurato ad aprile del 2014 con un obiettivo primario: formare studenti ed offrire ai chirurghi già specializzati la possibilità di sperimentare nuove tecniche, come le più e attuali ed innovative metodologie di chirurgia mini-invasiva. La nostra sala è un punto di riferimento anche per la ricerca – ha sottolineato la professoressa -, ad esempio alcuni neurochirurghi stanno sperimentando sui cadaveri del nostro Programma di donazione delle tecniche di intervento non invasive che dal naso permettono di arrivare fino all’ipofisi (ghiandola situata alla base del cranio, ndr)».
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Attenzione a non confondere la dissezione di cadavere con l’autopsia: «L’esame autoptico è più cruento – ha specificato Manzoli – perché diverso è il fine. La dissezione, invece, si sofferma sullo studio del corpo umano, attraverso un esame di tutti i tessuti umani, dalla superficie alla profondità. In questo modo un chirurgo, o un aspirante tale, può constatare con i suoi occhi che i corpi umani sono differenti tra loro, preparandosi alle molteplici diversità anatomiche con cui avrà a che fare quando varcherà la soglia di una vera sala operatoria».
Ovviamente, affinché la sala settoria potesse essere pienamente operativa l’università ha dovuto provvedere a reperire dei cadaveri: «Contemporaneamente all’inaugurazione di quest’area del nostro dipartimento – ha aggiunto la direttrice – è stato avviato un programma per la donazione del corpo post-mortem». In Italia, le regolamentazioni vigenti in materia sono obsolete e insufficienti, anche se l’attuale legislatura si è messa in moto per aggiornare l’intera normativa. Nel mese di ottobre dello scorso anno Pierpaolo Sileri (M5S) ha presentato un disegno di legge, in commissione Sanità al Senato, in tema di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica. L’argomento era già stato trattato nel corso della scorsa legislatura, approvato dalla Commissione Affari Sociali e rimasto fermo, poi, in Senato dove non ha ottenuto il via libera definitivo.
«Nell’attesa di un aggiornamento risolutivo – ha spiegato Manzoli – la normativa vigente fa ancora riferimento ad un Regio Decreto del 1933 e ad un Regolamento di Polizia Mortuaria del 1990. Ed è a questi che si è attenuto anche il nostro Ateneo per attivare il programma di donazione del corpo post mortem. Per donazione si intende l’utilizzazione temporanea del corpo per finalità di studio e ricerca scientifica, trascorso il quale, il corpo in questione viene cremato (salvo diversa disposizione del donatore) e le ceneri restituite alla famiglia. Si tratta di un atto volontario – ha specificato la professoressa – che avviene attraverso la compilazione di un modulo firmato dal donatore, senza la necessità di alcuna formalizzare davanti un pubblico notaio. La decisione, ovviamente, può essere rivista nel corso degli anni. Ad oggi sono 343 i donatori di cadavere iscritti nel registro dell’università bolognese, per un totale di circa otto cadaveri disponibili ogni anno».
Un numero esiguo se si considera che l’università di Bologna riceve richieste da molti atenei italiani affinché anche gli altri studenti di medicina possano sperimentare la dissezione su cadavere umano. «Nelle altre università d’Italia – ha commentato Manzoli – gli istituti anatomici hanno comunque a disposizione diverso materiale di studio, come ossa, umane e non, video, simulatori, modellini in plastica. È chiaro, però, che per uno studente l’esperienza non è analoga, tanto che molti atenei ci contattano per poter usufruire della nostra sala. Abbiamo stipulato delle convenzioni con le università di Ferrara, Modena-Reggio Emilia e Foggia per ospitare i loro iscritti. In ogni caso, molti atenei italiani, a partire da Roma Sapienza, si stanno attivando per rendere operative le loro sale di anatomia».
Processi di ammodernamento che potrebbero certamente giovare di un’approvazione in tempi brevi del disegno di legge Sileri: «Questa legge – ha specificato Manzoli – servirà a disciplinare il processo di donazione, il tempo esatto di utilizzo di un corpo e ad istituire dei fondi dedicati per il mantenimento delle strutture e dei progetti, attualmente a carico delle università promotrici. Soprattutto – ha commentato la professoressa – la nuova legge permetterà di individuare dei centri di riferimento regionali per le università che non hanno una sala settoria propria, eliminando le differenze formative che attualmente ci sono tra i diversi atenei italiani. In questo modo – ha concluso – tutti gli aspiranti camici bianchi potranno affacciarsi al mondo del lavoro potendo contare su un medesimo bagaglio di esperienze».