In occasione dei 125 anni della professione chiropratica, il presidente AIC torna a ribadire la necessità di un corso universitario dedicato
Una “professione sanitaria di grado primario” esercitata in più di 90 paesi nel mondo. In Europa, la chiropratica è riconosciuta in tutti i paesi, salvo la Grecia, la Polonia, l’Ungheria e la Spagna, ed è regolamentata in 16 paesi. Nata negli Stati Uniti nel 1895 ad opera di D.D. Palmer, per comprendere meglio i fattori causali di molti problemi fisici e di riportare il paziente ad una condizione di buona salute e aiutarlo di mantenerla senza ricorrere sempre all’ uso dei farmaci. Oggi ricorre il 125esimo anniversario della fondazione della professione.
L’Associazione Italiana Chiropratici ripercorre attraverso le parole del presidente Dr. John Williams quale sia lo stato dell’arte in Italia, tra ritardi, speranze e grande attenzione verso i milioni di pazienti che ogni anno si rivolgono ai professionisti per il benessere dell’apparato muscolo-scheletrico senza l’uso dei farmaci.
In Italia esiste ancora una situazione che si può non a torto considerare “unica al mondo”. La professione è stata riconosciuta infatti per ben due volte: la prima nel lontano 2007, con l’entrata in vigore il 1° gennaio 2008, ma i decreti attuativi che avrebbero dovuto essere emanati entro sei mesi, non sono mai arrivati. Nel 2020, ben 12 anni dopo, la situazione appare ancora in stallo.
«È chiaro che ci sono forti pressioni da parte di gruppi di altre professioni sanitarie che non vedono di buon occhio il riconoscimento della chiropratica come professione sanitaria primaria con un corso di laurea di cinque anni – spiega il Dr. John Williams -. La prova è nel fatto che la Legge Lorenzin, che doveva finalmente attuare una regolamentazione della professione, è diventato il presupposto di un nuovo riconoscimento nella Commissione Sanità del Senato. C’è stato perfino un tentativo di abrogare il riconoscimento ottenuto nel 2008, ma nella Commissione Sanità della Camera, gli emendamenti del Senato furono rivisti e ed è stato tolto il riferimento alla abrogazione della legge di 2008».
Nella nuova legge, ancora non ci sono chiare indicazioni sulla posizione del chiropratico perché ancora una volta, lascia la regolamentazione ad altri organismi. In tutto il mondo la chiropratica è riconosciuta come professione sanitaria autonoma e indipendente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scritto delle “Linee guida sulla chiropratica” che indicano un minimo di cinque anni di formazione post-secondaria per diventare un chiropratico ed effettivamente, non esistono nel mondo corsi di tre anni per diventare chiropratico.
«La mia preoccupazione è che, nonostante la legge 43/06, cui viene fatto riferimento per il completamento della disciplina della professione non preveda alcuna indicazione sulla durata del corso di studi universitari (che può essere sia di tre che di cinque anni) limitandosi a richiedere un titolo di studi di livello universitario, le istituzioni sembrano volerla interpretare in modo errato, limitando il corso di studi a soli tre anni.»
«Questo significherebbe – quindi – isolare la chiropratica dalla regolamentazione internazionale, creare un “unicum” tutto italiano, correndo il rischio di “sfornare” chiropratici impreparati. Ciò aumenterebbe il rischio per i pazienti e vanificherebbe i noti benefici costo-efficacia dimostrati dalle statistiche e dalle ricerche fatte dai governi di paesi come la Nuova Zelanda, l’Australia, il Canada, gli USA e altri. Temo, inoltre, l’inclusione di finti chiropratici che finora la nostra associazione ha sempre denunciato e che in caso contrario facilmente potrebbero diventare i nostri colleghi per legge».
«Da più di 15 anni noi stiamo dialogando con il Ministero della Salute e il MIUR per cercare di ottenere una regolamentazione che rifletta la professione chiropratica secondo la propria filosofia di tutela della salute. Abbiamo sempre ribadito la necessaria preparazione accademica internazionale, presupposto fondamentale per garantire la sicurezza dei pazienti e dei benefici derivanti dai trattamenti conservativi e non-invasivi. Tutte le statistiche e le ricerche scientifiche hanno dimostrato anche notevoli risparmi di denaro pubblico, che si traducono in meno ricoveri ospedalieri, meno interventi chirurgici e una netta riduzione della spesa farmaceutica. Sono fiducioso che gli incontri con i ministeri e con il Consiglio Superiore della Sanità ci daranno la possibilità di dimostrare l’importanza di non declassare verso il basso la chiropratica per meri motivi burocratici. Sarebbe un vero peccato perdere i vantaggi per la salute pubblica e per le finanze statali».
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