Il vicepresidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici lega le violenze agli operatori al fenomeno dell’abbandono del servizio pubblico da parte dei camici bianchi. Boccia il Daspo negli ospedali e chiede l’equiparazione al pubblico ufficiale
Urla, tensione, parole fuori le righe, a volte anche aggressioni fisiche più o meno cruente: sono le situazioni che tanti medici e operatori sanitari si trovano a fronteggiare nelle corsie di ospedale e nei reparti di emergenza urgenza. Una situazione che ben conosce Giovanni Leoni, vicepresidente FNOMCeO, ex medico di Pronto soccorso e tra i primi a descrivere il fenomeno delle autodimissioni dei medici, cioè l’abbandono del servizio pubblico da parte dei camici bianchi che deriva da una serie di fattori tra i quali anche la difficile situazione delle aggressioni. La ricetta, per Leoni, è composita: «Come ex medico di Pronto soccorso mi ricordo bene com’era la situazione che purtroppo oggi è rimasta immutata per certi aspetti, anzi a volte è peggiorata. Una cosa che si deve fare per fronteggiare l’aggressività di un soggetto che comunque sarebbe aggressivo ovunque è avere un punto di sicurezza fisso, un punto di polizia che faccia anche da deterrente psicologico». Leoni boccia il Daspo negli ospedali («l’assistenza sanitaria va comunque data») ed è uno dei sostenitori della proposta, avanzata da diverse associazioni mediche e forze politiche, di estendere la qualità di pubblico ufficiale ai camici bianchi.
Dottor Leoni, le aggressioni sono un tema all’ordine del giorno anche per voi della FNOMCeO. Secondo lei questo tema si lega anche alla questione delle autodimissioni dei medici dal pubblico servizio in particolare dai Pronto soccorso, dall’emergenza?
«Sicuramente la vita dei Pronto soccorso ha degli aspetti che sono legati allo stress sia di tipo professionale che di tipo ambientale. Non c’è niente di peggio di vivere un’esperienza di aggressività, urla, sbraiti, contrasti tra il personale e qualche utente o parente agitato mentre c’è la gente che aspetta in barella di essere soccorsa. Quindi questo è un ulteriore problema. Come ex medico di Pronto soccorso mi ricordo bene com’era la situazione: purtroppo oggi è rimasta immutata per certi aspetti, anzi a volte è peggiorata. Una cosa che si deve fare per fronteggiare l’aggressività di un soggetto che comunque sarebbe aggressivo ovunque è avere un punto di sicurezza fisso, un punto di polizia che faccia anche da deterrente psicologico, oltre al fatto che deve essere ben evidenziato che è videosorvegliata e controllata. Poi bisogna evitare i motivi di stress, cioè le attese prolungate sulle barelle, si deve garantire una risposta del personale che deve avere anche la possibilità di agire in tempi congrui. Molto interessante è stata anche la proposta del Veneto di mettere dei mediatori culturali che spieghino alle persone qual è la loro procedura e qual è il tempo di attesa. Poi c’è la prevenzione in posti come le guardie mediche isolate. Ci sono violenze premeditate, le vittime sono soprattutto dottoresse: il sesso femminile comincia ad essere preponderante nella nostra professione, guardie mediche che aprono anche di notte a degli utenti sconosciuti, questo è stato il motivo degli episodi di violenza che ci sono stati nel sud Italia in questo periodo. È un problema istituzionale, servono porte allarmate e se possibile evitare queste situazioni che portano ad aprire la porta a sconosciuti in posti isolati».
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La convince l’idea del Daspo per i violenti?
«Per i violenti è una situazione che deve essere organizzata, occorre una schedatura da parte della Questura, perché le persone violente normalmente ripetono questi atti di violenza e devono essere ben noti anche a tutti quanti quelli che sono i posti di polizia fissi, in particolare quelli ospedalieri».
Quindi schedatura sì ma negare l’assistenza no?
«Allora, l’assistenza sanitaria va data perché noi dobbiamo dimostrarci un Paese più etico e civile di tanti altri. E quando uno ha bisogno di assistenza, il medico dà l’assistenza. Certo che a volte i medici, gli infermieri si trovano a rischio nel rapportarsi con persone che hanno indole violente dall’altra parte. Da qui quella che è la percezione del fenomeno grazie a voi, grazie ai media, di protezione di comprensione di questo tipo di situazioni».
Paragonare i medici ai pubblici ufficiali è un’idea che molte forze politiche stanno portando avanti e anche nella categoria medica c’è questa idea. La convince?
«Sì. Diciamo che è un deterrente sicuramente utile. Un dipendente pubblico che è coinvolto nell’urgenza emergenza deve essere protetto anche con una pena commisurata a quello che è l’atto in oggetto, cioè il soccorso alla popolazione».