Ricerca: morbo va affrontato prima che i sintomi si manifestino, fondamentale la formazione dei medici. Con il protocollo “Train the Brain” ideato dal Professor Maffei risultati positivi nell’80% dei casi
L’ Alzheimer colpisce 48,9 milioni di persone nel mondo, una ogni tre secondi. In Italia i malati sono circa 900mila. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) prevede che i malati raddoppieranno nel giro di due decenni. Chi è malato non può saperlo perché i sintomi appaiono solo dopo quindici o venti anni, ovvero quando la malattia ha già distrutto la maggior parte dei neuroni.
Insomma, è una patologia “silente”. Per questo motivo, il segreto per combatterlo – e far risparmiare un bel po’ di soldi al Servizio sanitario nazionale – è prenderlo per tempo, ovvero prima che si manifesti. A questo sta lavorando la Fondazione IGEA Onlus, che tra gli obiettivi perseguiti ha quello di promuovere studi sul fenomeno dell’invecchiamento della popolazione e di realizzare iniziative per fronteggiare i problemi posti dal crescente invecchiamento sociale. Con la diagnosi precoce e la prevenzione si può intervenire per tempo, applicando opportuni stili di vita e praticando il protocollo “Train the Brain” (Allena il cervello), studiato e realizzato dal neurofisiologo Lamberto Maffei con gli Istituti di Neuroscienze e di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche e con l’Università di Pisa. Il protocollo ha lo scopo di mantenere la mente attiva e rallentare la perdita cognitiva. Ne abbiamo parlato con il vicepresidente della Fondazione IGEA, Giovanni Anzidei.
La Fondazione IGEA protagonista di un importante studio per la cura del morbo di Alzheimer…
«Lo studio è stato svolto al CNR dal prof Lamberto Maffei, vicepresidente dell’Accademia dei Lincei, un neurofisiologo che ha lavorato anche con Rita Levi Montalcini. Questo studio ha dato risultati positivi nell’80% dei casi. Quel che più conta al giorno d’oggi è riuscire ad effettuare una diagnosi precoce, in modo da cominciare a gestire la malattia il prima possibile. L’Alzheimer è una malattia silente, che non dà sintomi però lavora per dieci, quindici anni distruggendo i neuroni. I sintomi appaiono quando la stragrande maggioranza dei neuroni sono andati persi. L’obiettivo dello studio è mirato ad individuare le persone a rischio prima che sia troppo tardi. In questo modo si cerca di recuperarli tentando di salvare anche la cosiddetta “riserva cognitiva” del cervello, attraverso la quale si può rallentare la patologia e consentire alle persone a rischio di vivere alcuni anni in più in maniera autonoma, serena e dignitosa. Ciò consentirebbe anche un risparmio per il Servizio sanitario nazionale di circa 70mila euro ogni anno per singolo malato. Una cifra enorme se si considera che solo nel nostro Paese i malati di Alzheimer sono 600mila. Il tutto facendo prevenzione anziché destinare i soldi solo all’assistenza».
La prevenzione, e quindi anche la formazione e l’informazione del personale sanitario e dei cittadini, diventano fondamentali per contrastare una malattia di cui si sa ancora troppo poco sia dal lato dei medici che da quello dei pazienti.
«Nel caso delle demenze in generale, e dell’Alzheimer in particolare, siamo di fronte a situazioni in cui il malato che quando comincia ad accorgersi della sua malattia, ed è comunque troppo tardi, tende a negarlo a se stesso. I familiari lo nascondono e questo non fa che peggiorare la situazione. Quindi è importante far sapere che se individuiamo una persona malata per tempo abbiamo la possibilità di fronteggiare il problema e di fare qualcosa di molto importante per il paziente. Il protocollo che ha fatto il professor Maffei al CNR si chiama “Train the brain”: il cervello è un organo come tutti gli altri, e se lo si tiene allenato funziona bene, resta tonico e si tengono lontane le patologie. Insomma, così come le persone vanno in palestra a mantenere i muscoli in allenamento, lo stesso può essere fatto con il cervello. Purtroppo siamo ancora in un periodo storico in cui la gente pensa che se si ha un problema al cervello non ci sia più niente da fare. Questo non è vero: oggi c’è la possibilità di intervenire, accorgersene per tempo e rallentare l’avanzamento della patologia. L’esperimento fatto dal CNR ha dimostrato che i risultati positivi che riguardano l’80% dei soggetti trattati si conservano dopo due anni. Perché solo due anni? Semplicemente perché l’esperimento è finito due anni fa, fra uno o due anni vedremo se l’effetto dura anche di più, considerando anche che è possibile ripetere il trattamento e quindi recuperare una volta in più la propria riserva cognitiva».