Digitalizzazione e innovazione vanno bene, ma non devono incentivare «pratiche diseducative per i giovani medici», dice la Responsabile della Bioetica dell’Ospedale Fatebenefratelli
«I pazienti che hanno usato i sistemi di consenso informato elettronico, completi di dettagli interattivi sulla ricerca e di messaggi che potenziano la fiducia, hanno riportato più alti livelli di soddisfazione e di comprensione dopo un follow-up di 6 mesi. Le istituzioni di ricerca dovrebbero prendere in considerazione lo sviluppo e un ulteriore investimento sugli e-consent che mostrano ai pazienti informazioni interattive che vadano oltre quelle richieste dalle previsioni legali, inclusi gli elementi che possono innalzare la fiducia dei pazienti nella ricerca».
Si legge così in un recente studio pubblicato sugli Annals of Family Medicine statunitense, che fa il punto sulla migrazione in digitale di uno degli strumenti più importanti (e controversi) della dinamica medico-paziente: l’informazione e il consenso all’atto medico. Nell’importante sentenza 28985 del 2019, la Corte di Cassazione ha definito il consenso informato un «esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica». Sono diverse le cause di responsabilità civile nell’ambito della professione medica che vedono una soccombenza della parte sanitaria proprio per difetti di questo importante strumento, e la rivoluzione tecnologica che certo non lo terrà immune potrebbe modificare ulteriormente il quadro.
«Qualunque strumento possa facilitare la relazione è uno strumento ben accetto», afferma la dottoressa Maria Teresa Iannone, responsabile del Servizio di Bioetica dell’Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli di Roma. «Uno strumento di questo genere rischia però di incontrare due limiti – precisa -. Uno è quello di sostituire completamente la relazione, cosa che purtroppo avviene spesso già col consenso informato cartaceo. Nello stesso momento, il rischio reale è che questa trasformazione tecnologica possa essere diseducativa per le nuove leve dei medici che potrebbero tendere ad affidare sempre più ad un “modulo” lo spazio delle informazioni condivise con il paziente. Il problema che oggi vediamo, e questo va sottolineato, è che è più facile trovarci di fronte a un paziente che firma senza troppo approfondimento, sia perché fondamentalmente si affida al sanitario ma anche purtroppo perché non trova lo spazio reale in cui essere accolto in una relazione».
Una responsabilità dunque importante, messa nelle mani dei professionisti della sanità: «Non bisogna mai dimenticare che il consenso informato trova il suo fondamento nell’aspetto relazionale molto più che nel presupposto legale – continua la giurista -. Evidentemente è un documento formale e probatorio necessario che ha il compito di dimostrare l’avvenuta relazione, ma non può mai sostituirla: la fotografa, ma non è sufficiente a raccontarla, ad assicurarsi che sia correttamente avvenuta».
«Ciò – continua – è di grande importanza in tribunale perché è proprio la mancanza del giusto presupposto a generare le pratiche di medicina difensiva, in cui il paziente che lamenta che nonostante il consenso informato non abbia ricevuto spiegazioni sufficienti incontra il medico pronto a difendersi come stranieri morali che vivono lo stesso percorso su fronti diversi. Ovviamente tutto questo non deve far trarre la conclusione di demonizzare gli strumenti elettronici a supporto dell’informazione e del consenso, ma significa che qualsiasi sia il supporto da utilizzare, il fronte da combattere è quello di una eccessiva legalizzazione della dinamica dell’informativa che porta al consenso, per puntare invece ad utilizzare ogni nuovo strumento a servizio della relazione e del paziente con l’obiettivo di superare lo scoglio dell’essere troppo attenti al piano formale, cosa, purtroppo, che è spesso una realtà. Andando verso la digitalizzazione chiaramente aggiungiamo un tassello in questo profilo di rischio che possiamo superare cogliendo questa nuova opportunità accompagnando e orientando la dinamica e questa, bisogna dirlo, non è una cosa facile».
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