La testimonianza di un operatore del 112 a Milano: «Mancano i DPI per i pazienti, ma questa battaglia la vinceremo noi»
«Mancano le mascherine chirurgiche per i pazienti, stiamo finendo i camici integrali e gli occhiali protettivi. Per noi operatori, grazie anche agli ultimi sforzi delle istituzioni, le mascherine sono arrivate e garantite ma sicuramente il clima qui non è dei migliori». La storia è quella di Pietro, un autista-soccorritore che da settimane a Milano fa turni di notte e di giorno («fino a 12 ore di lavoro ininterrotto», racconta) sui mezzi della Croce Rossa Italiana per i servizi di emergenza-urgenza del 118 e del 112.
Ovviamente, Pietro non è il suo vero nome, ma per discorrere liberamente con Sanità Informazione ha chiesto di avere la propria identità oscurata, citando ragioni di tutela del proprio posto di lavoro. Cinque anni di esperienza sulle autoambulanze lombarde, un lavoro molto amato, una passione, forse una vocazione quella di aiutare gli altri; una vita che da giorni è messa sotto forte stress dall’emergenza Coronavirus.
«In un periodo come questo dove i contagi da Coronavirus sono con cadenza quotidiana, i dispositivi di protezione individuale fanno la differenza», ha scritto la UIL di Bologna segnalando quella che per gli operatori del soccorso è certamente una priorità.
E in effetti, ci racconta Pietro, «tutti i giorni siamo attivati per casi sospetti, ma anche quando non sono sospetti lo diventano in pochissimo tempo se hanno una sintomatologia legata a problemi respiratori. Continuiamo a combattere con una carenza cronica di DPI, siamo sotto pressione da più lati. Questo è il nostro lavoro, ce lo siamo scelti e nessuno di noi si è mai rifiutato di prendere servizio: sappiamo cosa rischiamo, ma alla fine se non lo facciamo noi, chi lo fa?».
«I colleghi infermieri e medici degli ospedali sono tutti i giorni in prima linea con molte ore di lavoro sulle spalle – continua Pietro -. Ma dalla loro c’è il trovarsi in un ambiente già protetto. Noi in strada come facciamo? Nelle case della gente? Nelle peggiori situazioni che ci troviamo ad affrontare? Lì purtroppo ci siamo noi ed è un po’ difficile sentirsi tutelati», ci spiega dopo aver contattato la redazione di Sanità Informazione per proporre che anche la storia degli autisti-soccorritori venisse raccontata.
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Il coraggio è comunque il sentimento protagonista, ci racconta: «Se ci siamo scelti questo mestiere, sapevamo già a cosa saremmo andati incontro. Questa battaglia la vinceremo noi e di questo ne sono sicuro». La pressione, però, è elevata: «Le nostre giornate sono fatte di stress, non sai mai quale sarà la prossima chiamata, non sai cosa ti aspetta fuori dalla carraia. Vivi con l’ansia di ricevere una attivazione dalle unità di crisi che ti dicono che sei a rischio».
Sono infatti queste strutture a monitorare gli equipaggi che entrano in contatto con dei casi da sospetto Covid-19, coordinandosi poi con le strutture regionali AREU Lombardia per la gestione degli eventuali positivi. «In un turno – continua il racconto – abbiamo almeno 2-3 attivazioni per pazienti sospetti e quindi via di vestizione completa con tuta integrale. L’aria è pesante, non c’è da negarlo, tra tutti si crea un clima difficile sopratutto perché sappiamo di non essere completamente difesi».
Compito delle unità di crisi, oltre a quello di monitorare la salute fisica degli equipaggi attivati, è anche quello di sostenere l’equilibrio mentale con personale psicologico predisposto: «Ci sono delle interviste costanti a noi operatori e siamo perennemente monitorati. Tra di noi ci si fa forza e i colleghi nelle macchine ci sono di grande aiuto. Però, confesso, in questi frangenti è sempre difficile confidarsi».
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