Volontario del Soccorso alpino, Molesi è un anestesista rianimatore esperto di soccorsi in condizioni limite: «Al Polo Sud l’ospedale più vicino si poteva raggiungere in 12 ore. Per fortuna siamo riusciti a gestire bene tutte le situazioni critiche». Oggi ha lasciato il sistema sanitario nazionale e lavora come contractor di una agenzia medica internazionale
«Posso definirla ‘medico delle situazioni estreme?». «Beh, detto così sembra chissà cosa, però in effetti mi piace la medicina delle spedizioni, il prendere in considerazione la medicina di emergenza in contesti particolari. In un ambulatorio di una grande città italiana mi annoierei». È proprio sul finire della conversazione che trovo le parole giuste per definire Andrea Molesi, anestesista rianimatore, medico volontario del soccorso alpino e grande esperto di soccorso in condizioni estreme. Una passione che lo ha spinto a lasciare il Servizio sanitario nazionale (lavorava al Carlo Urbani di Ancona) per tentare un’avventura che, come contractor di una agenzia medica internazionale, ora lo ha portato in Guinea equatoriale come medico di una compagnia Oil&gas americana che opera nel paese africano.
«Il soccorso extra-ospedaliero prevede una formazione particolare – spiega Molesi a Sanità Informazione -. Si va fuori con dei mezzi che non garantiscono una quantità di risorse necessaria a fare qualunque cosa. Le linee guida internazionali per il soccorso extra ospedaliero vanno contestualizzate ad ambienti particolari. Non dico che una pista da sci sia un ambiente estremo ma sicuramente non è quello classico di una strada di città o di una casa. Le competenze che dovrebbe avere il medico di emergenza che fa un soccorso in questi ambienti sono prima di tutto una esperienza personale nel soccorso in generale e poi di riuscire ad avere la capacità di adattarsi a condizioni estreme sia come meteo, perché in montagna non vai solo con il bel tempo ma anche con neve e vento, e sia come offerta di soccorso in sè. Dobbiamo tenere conto che le ambulanze, più che per legge diciamo per protocollo, dovrebbero raggiungere l’infortunato in un tempo al di sotto dei 10 minuti e garantire un rientro in ospedale nello stesso modo. Tutto questo non si applica per le squadre di soccorso in montagna che pur partendo nel momento della chiamata dell’incidente possono arrivare con delle ore di ritardo e tornare indietro con ancora più ritardo».
La storia di Molesi parte da lontano. Non aveva avuto sin dall’inizio la folgorazione per la carriera medica ma, studiando per il test di ingresso a Medicina, scopre che la materia lo appassiona. Iniziato il corso, si avvicina alla figura dell’anestesista rianimatore che infatti sceglie come specializzazione. A quel punto non poteva far altro che unire la passione per montagna, scialpinismo e arrampicata con la medicina: «Ho cercato di portare la mia professione all’interno della montagna in modo tale da dire: se non posso andare in montagna per conto mio lo faccio per lavoro. Ed ecco il soccorso alpino».
Ambiente difficile quello delle alte vette, dove pochi minuti possono fare la differenza tra la vita e la morte. Ma a volte la montagna sa essere spietata: «La velocità è importante nel soccorso, tanto è vero che si parla di ‘golden period’. Ma non sempre è sufficiente: ultimamente siamo andati a raccogliere delle persone che in realtà erano morte a pochissimi minuti dell’incidente. Non c’è stato niente da fare».
«Il soccorso più significativo – continua Molesi – è accaduto proprio nella mia regione, le Marche. L’ingranaggio ha girato molto bene con delle lentezze esasperanti in fase preparatoria ma alla fine è andato tutto bene. I problemi che abbiamo avuto sono stati quelli sull’uso dell’elicottero, la mancanza di lungimiranza e la mancanza di regole d’ingaggio ci ha impedito di utilizzare in modo precoce l’elicottero per il trasporto del personale delle squadre di soccorso e dei feriti. Nonostante questo siamo riusciti a portare via tutti e due i feriti».
Molesi però è famoso per aver partecipato anche a una spedizione in Antartide. Naturalmente sempre come medico. «Quando ti trovi questi siti così remoti la medicina che ti viene richiesta non è soltanto quella specialistica – spiega Molesi -. Il datore di lavoro ti chiede di saper gestire al meglio le emergenze. Poi succede che le emergenze sono rare. Bisogna anche saper gestire la routine, una medicina più ambulatoriale. Attraverso corsi e studi personali ho acquisito competenze in ginecologia, medicina generale, pediatria, medicina tropicale, medicina del lavoro».
Ma in Antartide il problema grosso era gestire l’emergenza e l’urgenza. «La base era isolata dal resto del mondo, da lì quando ci potevamo muovere l’aereo doveva arrivare in Nuova Zelanda e sono 8-9 ore di volo. Ma l’aereo non ce l’avevamo sempre. Dovevamo andare in qualche modo verso la base americana oppure farci mandare un aereo. Il che significa che qualsiasi incidente con richiesta di evacuazione medica avrebbe significato avere il paziente in ospedale in un arco di 12 ore. Un tempo lunghissimo. In questo tempo tu devi essere in grado di gestire la situazione e un malato critico».
Fortunatamente, nessuna evacuazione si è resa necessaria. Ma qualche situazione di emergenza sì. «Non abbiamo rischiato la vita del paziente ma ci sono state situazioni da fronteggiare lì sul posto con i mezzi che avevamo e nel più breve tempo possibile. Siamo riusciti a gestire bene la situazione».
Dall’Antartide all’Africa il passo è breve. Ma per Molesi, il medico delle situazioni estreme, non c’è scenario pur remoto che non si possa affrontare.
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