La giovane infermiera romana lavora al Gemelli a trial clinici su farmaci sperimentali per la cura della SMA e della distrofia di Duchenne: «Appena ho iniziato a fare l’università, sono entrata nel reparto e ho detto ‘è il mio lavoro’»
Il suo entusiasmo è contagioso così come il suo sorriso. Dalle parole e dallo sguardo di Diletta Rossi, giovane infermiera di ricerca del Policlinico Gemelli, traspare tutto l’amore per la sua professione, una passione sbocciata sin da giovane che ha trovato compimento nel suo percorso professionale.
La storia di Diletta è anche quella di chi, come tanti giovani professionisti sanitari italiani, ha cercato la strada dell’estero, per la precisione nel Regno Unito. Ma nel suo destino era scritto che la piena realizzazione sarebbe arrivata in Italia. Oggi la trentenne infermiera lavora al Policlinico Gemelli in importanti trial che riguardano principalmente ragazzi affetti da SMA e la distrofia di Duchenne. Ed è stata scelta anche per fare la testimonial del 5permille del Policlinico Universitario romano.
«Sono arrivata al Gemelli due anni fa – racconta a Sanità Informazione -. Ho fatto un colloquio con il professor Eugenio Mercuri, luminare della Neuropsichiatria infantile attivo nella ricerca in malattie genetiche rare. Giorno dopo giorno, in due anni, ho imparato a conoscere queste patologie. Vengono bambini da tutta Italia e anche da altre parti del mondo, la sperimentazione sta facendo grandi progressi».
Diletta e le sue colleghe sono alle prese tutti i giorni con i pazienti che vengono a sottoporsi alle terapie e agli screening: una presa in carico a 360 gradi di questi ragazzi che arrivano al Gemelli carichi di speranza.
«L’infermiere di ricerca è diverso rispetto all’infermiere di reparto – spiega ancora Diletta Rossi -. Ci sono protocolli da seguire. Ci sono studi americani o inglesi che vanno tradotti, capiti e attuati. Sono divisi in giornate, settimane o mesi in cui è specificato cosa deve fare il bambino. Dalla misurazione dell’altezza a quella del peso, dall’elettrocardiogramma alla somministrazione del farmaco sperimentale per endovena o per via orale. L’infermiere qui ha un ruolo ancora più centrale rispetto ai reparti».
Come spesso avviene per le professioni sanitarie, la parte strettamente sanitaria si intreccia con quella umana, dolori e speranze si alternano ed è difficile non empatizzare con questi giovani ragazzi che lottano per la vita. «Siamo tre infermiere, non abbiamo turni: attacchiamo la mattina e stacchiamo il pomeriggio. Il bambino vede sempre noi: alcuni vengono ogni settimana, altri una volta al mese o ogni tre mesi. Li conosciamo tutti i ragazzi. I genitori ti affidano la vita di questi bambini. Dal di fuori non si comprende appieno l’importanza della ricerca. Da dentro la vedi davanti a te. Quando ti sorridono e ti dicono “sono riuscito attraverso la terapia a fare le scale”, ti emozioni: a noi sembra una cosa banale ma per questi bambini non lo è. Allora lì pensi: “faccio il lavoro più bello del mondo”».
Diletta non ha mai avuto dubbi sulla scelta da intraprendere: voleva fare la professionista della sanità. L’unico dubbio lo aveva sulla fisioterapia, la attirava per la sua vicinanza al mondo dello sport. Ma la prima passione ha vinto. «Anche quando ero più giovane correvo sempre quando una persona si faceva male. Mi prendevo cura delle persone. Al bivio dell’università, ho scelto di fare l’infermiera. La strada più giusta per prendersi cura della persona nella sua totalità è l’infermiere. Appena ho iniziato a fare l’università, sono entrata nel reparto e ho detto ‘è il mio lavoro’. Lo risceglierei tutti i giorni».
«Sono stata in Inghilterra ma non faceva per me – conclude -. Però ho migliorato il mio inglese e ho capito il mondo sanitario inglese. Lì la nostra figura è molto apprezzata e si può fare una carriera importante. Qui ancora è complicato. Sono dispiaciuta che in questo paese la figura infermieristica non sia apprezzata nel pieno delle sue capacità e potenzialità. Oggi andrei nelle scuole e consiglierei a tutti questo lavoro: fatelo perché dà tante soddisfazioni a livello professionale e soprattutto umano. Torni a casa dopo una giornata di lavoro e dici: ‘ho fatto il massimo per far star bene delle persone’».
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