Migliaia di migranti arrivano ogni anno come braccianti per la stagione agrumicola nella piana di Gioia Tauro. «Condizioni di vita e di lavoro inaccettabili. Ad otto anni dalla “rivolta di Rosarno” niente è cambiato, manca la volontà politica». La denuncia del Coordinatore di Medici per i diritti umani e di OIS (Osservatorio Internazionale per la salute)
Chi sono i lavoratori stranieri della piana di Gioia Tauro? La maggior parte, migranti provenienti dall’Africa Sub-Sahariana, manodopera a basso costo per i produttori locali di arance, clementine e kiwi. Nel marciapiede che fa da “centro per l’impiego” sperano ogni giorno di esser portati nei campi a lavorare, in condizioni di sfruttamento e illegalità: sotto caporalato, senza un contratto – o con contratti fittizi – 7 giorni su 7, 10 ore al giorno per guadagnare 25 euro o a cottimo. 50 centesimi o 1 euro per ogni cassetta di agrumi raccolta. Vivono, o meglio, sopravvivono, sparsi in tendopoli, baraccopoli e casolari, in condizioni igienico-sanitarie spaventose: senza acqua calda, senza acqua potabile, non c’è riscaldamento, non c’è corrente elettrica, ammassati l’uno sull’altro. E si ammalano. Qui, in Italia. I dati che emergono dalle attività della clinica mobile di MEDU (Medici per i diritti umani) – che ha operato a Gioia Tauro per il quinto anno consecutivo grazie al Progetto Sanità di Frontiera di OIS (Osservatorio Internazionale per la salute) – si riferiscono a patologie strettamente connesse alle pessime condizioni abitative e lavorative in cui i braccianti stranieri versano. La clinica MEDU fornisce loro assistenza medico-sanitaria e orientamento socio-legale, ma spesso i medici si trovano a dover fare i conti con il grande senso di frustrazione che li pervade nel constatare che, negli anni, non c’è stato alcun miglioramento.
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Sulla carta, tante promesse da parte delle istituzioni; concretamente, poche azioni ed “iniziative d’emergenza”, ma nessuna soluzione individuata a medio e lungo termine. Otto anni dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno”, nulla è cambiato: i grandi ghetti di lavoratori migranti nella Piana di Gioia Tauro sono lo scandalo italiano “dimenticato” dalla politica. Di tutto questo, abbiamo parlato con Alberto Barbieri, Coordinatore di MEDU, a margine della presentazione de: “I dannati della terra”, il Rapporto 2018 di MEDU sui ghetti di Gioia Tauro, che si è svolta presso la Sala della Stampa Estera a Roma. Il medico accende i riflettori su tutte le criticità riscontrate dai braccianti a livello lavorativo, socio-sanitario e abitativo, proponendo anche i suggerimenti identificati dall’organizzazione umanitaria per sbloccare una situazione che si fa sempre più drammatica: housing sociale, incentivi alle aziende, controlli nei campi, liste di prenotazione ed introduzione degli indici di congruità – che permetterebbero di valutare, sulla base della produzione, le giornate lavorative necessarie e monitorare meglio il rispetto delle condizioni – e una formazione per medici di base della zona, per sensibilizzarli e coinvolgerli sul tema.
Lei ha definito i grandi ghetti dei lavoratori nella piana di Gioia Tauro uno scandalo italiano. Per quale motivo?
«Perché a otto anni dalla cosiddetta rivolta di Rosarno niente è cambiato, forse le cose sono addirittura peggiorate. Condizioni di vita e di lavoro inaccettabili per migliaia di lavoratori migranti, parliamo di più di tremila persone che arrivano nella piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi da novembre ad aprile».
Tanto impegno sulla carta, pochi fatti e azioni concrete da parte delle istituzioni e della politica
«Assolutamente sì, Medici per i diritti umani lavora nella piana di Gioia Tauro da cinque anni: abbiamo visto il sorgere di nuove tendopoli costruite sull’emergenza dal Ministero dell’Interno e dalla Protezione Civile ma nessun reale intervento di medio e lungo periodo. Tendopoli che poi vengono abbandonate a se stesse, diventano delle baraccopoli in cui le persone vivono in condizioni igienico-sanitarie spaventose: non c’è acqua calda né potabile, non c’è riscaldamento non c’è corrente elettrica, le persone vivono ammassate l’una sull’altra, in condizioni davvero incredibili. E non basta. A tutto questo, si aggiungono le condizioni di lavoro di estremo sfruttamento; quando va bene sono 25 euro al giorno per 9-10 ore di lavori nei campi. Il 70% dei lavoratori migranti è senza contratto, i pochi che sono stati sottoscritti in questi cinque anni sono solo di facciata, quello che si chiama lavoro grigio, in realtà ai lavoratori non vengono versati i contributi e non usufruiscono di tutta una serie di diritti. A parole sono state dette tante cose, sono stati firmati protocolli dalla Regione e dal Ministero dell’Interno ma nessuno di questi ha partorito qualcosa di concreto; si parlava di housing sociale, accoglienza diffusa, miglioramento delle condizioni di lavoro, maggiori controlli nei campi da parte dell’ispettorato del lavoro, liste di prenotazione, rilancio dell’economia locale. Tutte cose che sono rimaste sulla carta».
Nessun passo avanti dal punto di vista concreto?
«Nessun passo avanti, quest’anno c’è stato l’ennesimo incendio che ha causato una vittima. Una giovane donna nigeriana, Becky Moses, è morta ma questo non sembra aver cambiato più di tanto le cose. Devo ammettere che c’è anche una sorta di indifferenza che spaventa ed è per questo che l’abbiamo definito uno scandalo italiano dimenticato. Dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche se non attraverso protocolli che però poi non trovano applicazione concreta».
Quali sono le soluzioni che avete individuato voi come medici per affrontare una situazione che rimane drammatica?
«Premetto che noi siamo un’organizzazione di medici ed il nostro obiettivo è quello di curare, raccontare e testimoniare quello che vediamo attraverso la pratica medica sul territorio. Io penso che le soluzioni debbano arrivare dalle istituzioni; ad ogni modo, ci siamo sforzati anche di proporre soluzioni e azioni dal punto di vista sanitario e dell’accoglienza. Esistono anche esperienza positive sul territorio nella Piana di Gioia Tauro, portate avanti da piccoli gruppi e organizzazioni; ad esempio, l’accoglienza nel villaggio di Drosi. Qui, 150 migranti ogni anno trovano affitto a prezzi accessibili riutilizzando case sfitte o non utilizzate da persone del luogo che sono emigrate. Eccole le nostre proposte sull’housing sociale, per l’abitazione, per il lavoro: liste di prenotazioni, indici di congruità, controlli, proposte sul piano giuridico per una maggiore velocità dei percorsi di regolarizzazione per i richiedenti asilo. Si tratta di cose conosciute, e per le quali c’è anche un accordo di massima, sono stati firmati protocolli. Quello che manca è la volontà politica di farlo. Se c’è la volontà, e l’esperienza di Drosi lo dimostra, queste cose si possono realizzare anche con risorse limitate».
Dal punto di vista medico che significa prestare assistenza e supporto in un contesto di questo tipo?
«Dal punto di vista medico, come può immaginare, parlare di salute psicofisica in un contesto di baraccopoli e grandi ghetti non ha molto senso. Tutti i cosiddetti determinanti della salute vanno in direzione della sofferenza fisica e della malattia, collegata esattamente alle condizioni di accoglienza e di lavoro. Si tratta di patologie connesse alle condizioni terribili in cui vivono e non patologie infettive d’importazione, di cui si parla tanto. Tra l’altro, parliamo di ragazzi giovani, l’età media è di 29 anni, che arrivano in buona salute e si ammalano qua. E c’è anche un altro aspetto non trascurabile che è l’equilibrio fisico, la sofferenza emotiva e psicologica: il 70% di loro sono persone arrivate da meno di tre anni in Italia e la maggior parte viene dall’Africa occidentale ed ha sulle spalle le rotte subsahariane, i lager della Libia, le torture, le violenze disumane. Questo è un fenomeno che negli ultimi anni è andato crescendo fino a diventare allarmante: il trauma, la sofferenza psichica legata a queste esperienze limite che poi continua anche nel nostro paese – se le condizioni di accoglienza e di vita sono queste – andiamo incontro a quello che si chiama “retraumatizzazione”: non c’è via d’uscita dal dolore anzi, c’è uno sprofondare di sofferenza fisica perché dopo aver affrontato tutto quello che significano le rotte ci si trova a vivere in queste condizioni».
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In merito a questo, quanto è importante dare un’assistenza di tipo psicologico?
«È fondamentale: Medu, ormai da diversi anni, ha un focus specifico rivolto ai migranti forzati vittime di tortura, di trattamenti umani degradanti. Queste sono ferite invisibili, sofferenze che le persone si portano dietro, devono essere individuate precocemente perché ci sono delle possibilità di risposta molto positive che poi favoriscono il percorso di integrazione».