In Italia succede che un medico possa pagare per anni un’assicurazione che poi, nel momento in cui riceve una richiesta risarcitoria, non vale più. Una stortura che potrebbe essere risolta con un decreto attuativo della Legge Gelli-Bianco ma che, nel frattempo, ha mietuto e miete ancora tante vittime
È possibile guidare con tranquillità un’automobile sfornita di assicurazione? E allo stesso modo, è possibile per un medico fare il suo lavoro (delicato come pochi altri) senza la certezza di avere una copertura assicurativa che lo tuteli nel caso in cui qualcosa non dovesse andare per il verso giusto? E, infine, è possibile operare con la tranquillità di non vedersi costretti a dover sborsare cifre a cinque o sei zeri anche se si pagano ogni anno migliaia di euro di assicurazione? Il buon senso direbbe di no, ma siamo in Italia, il paese in cui tutto è possibile.
A. è una dermatologa che, da quando è in attività, è sempre stata coperta da una polizza assicurativa. Eppure si è vista arrivare una notifica di apertura di indagine a suo carico e, una volta cominciato il processo penale (il cui primo grado si è chiuso con la sua condanna e una provvisionale di 90mila euro) la compagnia assicuratrice le ha negato la copertura.
È un giorno di novembre del 2008. La dottoressa esegue un semplice intervento ambulatoriale ad una sua paziente: le asporta una lesione pigmentata diagnosticata come “fibroma molle”. Passano sette anni. La paziente si reca dal suo ginecologo di fiducia per un controllo di routine. Il medico le prescrive un approfondimento diagnostico dal quale emergono alcune lesioni epatiche, nonché la presenza di un “fibroadenoma della regione mammaria sinistra e una linfoadenomegalia ascellare destra”. Problemi, questi, che portano la paziente alla morte nel giro di pochi mesi.
È qui che viene aperto un procedimento penale nei confronti di A., in cui le viene contestata la responsabilità per la morte della paziente per non aver omesso di eseguire l’esame istologico della lesione cutanea asportata sette anni prima, ritenuta melanoma primitivo da cui le conseguenti metastasi epatiche. Alla fine del 2019 la dottoressa viene condannata in primo grado. Lei fa subito appello, visto che è certa di essersi comportata nel migliore dei modi e di non meritare una condanna.
Fin qui, la controversa storia di un medico che (come tanti altri) si ritrova coinvolto in un caso di presunta responsabilità per omessa o errata diagnosi nei confronti di un paziente e che si trova a combattere da oltre cinque anni per far valere la sua innocenza. Ma il vero problema, che non riguarda solo lei ma tutta la categoria, è un altro.
Chi lavora nell’ambito sanitario sa molto bene cosa sono le clausole “claims made”. In sostanza, la compagnia copre l’assicurato nel momento in cui arriva la richiesta di risarcimento. Nel caso specifico, nel 2008 (quando la dottoressa ha visitato la paziente successivamente deceduta) A. è coperta da una determinata compagnia, mentre nel 2016 (quando le arriva la notifica) da un’altra.
«Ho cambiato polizza – spiega la dottoressa a Sanità Informazione – perché volevo un incremento del massimale. Avevo chiesto anche una retroattività di dieci anni, ma il contratto che ho firmato (tra cavilli, note e parti estremamente confuse) ne prevedeva solo cinque». Ciò significa che, seppur sempre attenta a non lavorare mai sprovvista delle garanzie di un’assicurazione, la dottoressa si è ritrovata all’improvviso scoperta per una finestra temporale abbastanza lunga. Pur pagando puntualmente e fin troppo profumatamente (3.500 euro all’anno per una specializzazione tutto sommato non particolarmente a rischio), si è sentita dire che quei 90mila euro (e l’eventuale risarcimento che le verrà chiesto, evidentemente ancora più corposo), in favore degli eredi che si sono costituiti parte civile, avrebbe dovuto farli uscire dalle proprie tasche.
«Sono un medico, non un avvocato o un broker assicurativo. Forse sono stata un po’ ingenua – ammette – ma in sede di firma ho avuto delle garanzie che non erano presenti nel contratto. Sono sempre stata tranquilla perché sapevo di avere le spalle coperte da un’assicurazione. All’improvviso ho scoperto che non era così e ho fatto causa alla compagnia. Il mio avvocato ha chiesto un rito abbreviato ma il giudice lo ha reso ordinario. La questione è complessa e si è preso un po’ di tempo per valutare tutto. Spero che la causa penale, e poi quella civile, andranno per il verso giusto. Ma se non dovesse essere così, e se dovessi vincere la causa contro la compagnia assicuratrice, a pagare saranno loro».
Al di là di come andrà il processo, quanti medici, al pari della dottoressa A., credono di essere in una botte di ferro e, in realtà, non lo sono? Quanti credono di avere uno scudo che li protegga da eventuali richieste di risarcimento (più o meno fondate) ma è uno scudo di cartapesta? La clausola “claims made”, ovviamente, non esiste solo in Italia. Ma all’estero (come, ad esempio, in Gran Bretagna) la retroattività della polizza è garantita: nessun medico può ritrovarsi senza questo tipo di tutela, assolutamente vitale per il tipo di lavoro che fanno. E in questo senso va anche la bozza del decreto attuativo alla Legge Gelli-Bianco che si occupa proprio delle assicurazioni. In questa bozza è previsto che la retroattività deve essere almeno uguale ai termini di prescrizione dell’eventuale danno commesso. Nella speranza che una norma del genere diventi realtà quanto prima, i professionisti sanitari (in particolare quelli più esposti) devono fare molta attenzione al momento in cui scelgono un’altra polizza. Magari facendosi consigliare dal proprio avvocato di fiducia o facendosi confermare per iscritto dal broker (via mail, ad esempio) tutte le “fantastiche e incredibili” qualità della polizza che gli stanno proponendo.
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