Lavoro e Professioni 23 Dicembre 2021 14:45

Diagnosi tardiva, medico rischia condanna dopo 30 anni

Con la sentenza n. 34813/2021 la Cassazione stabilisce che il medico è tenuto al risarcimento per l’omessa diagnosi di una patologia terminale, anche se questa è ininfluente sul decorso della malattia. Il motivo? Violato il diritto del paziente terminale di scegliere come affrontare la prospettiva della morte ormai prossima

Diagnosi tardiva, medico rischia condanna dopo 30 anni

Un medico rischia di essere condannato dopo 30 anni per una diagnosi errata che non avrebbe comunque influito sul decorso, ormai irreversibile, del paziente. È il nuovo, preoccupante fronte che rischia di aprire una recente sentenza (34813/2021) della Corte di Cassazione. Una sentenza che allarga ulteriormente il ventaglio di rischi a cui risulta esposto il professionista sanitario. Quest’ultimo viene ritenuto responsabile – anche economicamente – non solo per errori che hanno un impatto materiale e quantificabile sulla vita dei pazienti (come nei casi di colpa grave) ma anche del pregiudizio: non tanto sulla salute del paziente, quanto sul poter liberamente e tempestivamente scegliere in quale modo spendere la restante porzione di vita. Per capire bene cosa è successo, cosa stabilisce la sentenza e come questa può influire (negativamente) sulla vita lavorativa di medici e professionisti sanitari, abbiamo chiesto un parere all’avvocato Francesco del Rio, della rete di legali di Consulcesi & Partners.

Avvocato, ci può raccontare il caso?

«La questione inerisce il ventaglio di potenziali istanze risarcitorie predicabili, e quindi astrattamente risarcibili, nei casi di mancata tempestiva diagnosi di processi morbosi terminali, a prescindere dalla condotta omissiva tenuta dal sanitario. Nel caso esaminato, la Corte si è trovata ad affrontare un’annosa vicenda, risalente addirittura all’ottobre del 1988, che vedeva coinvolto un dermatologo a cui veniva imputata una tardiva diagnosi di un grave tumore maligno della pelle. In breve, si assumeva che il medico, visitata una sua paziente, le avesse erroneamente diagnosticato un’affezione cutanea presente sull’alluce del piede sinistro come onicomicosi, anziché come melanoma maligno che, soltanto l’anno successivo, veniva riscontrato a seguito di alcuni esami prescritti dallo stesso sanitario. Respinta la domanda sia in primo grado che in appello, la Corte di Cassazione accoglieva un motivo di ricorso presentato dagli eredi della paziente deceduta che, però, non conduceva ad alcuna pronuncia di favore per i congiunti, poiché la stessa Corte di Appello, in sede di rinvio, rigettava ancora la pretesa attorea, con conseguente nuovo ricorso proposto davanti al Supremo Consesso».

E cosa ha stabilito la Cassazione?

«In questo secondo giudizio di legittimità, gli eredi fondavano la loro doglianza sul fatto che, se la paziente fosse stata tempestivamente informata della patologia e del suo carattere terminale, avrebbe avuto la possibilità di determinarsi liberamente riguardo alla scelta del percorso di vita da intraprendere, preclusole dall’errore commesso dal sanitario. Nell’accogliere il motivo di ricorso, la Terza Sezione ha quindi ricordato la distinzione fra lesione del diritto all’autodeterminazione e lesione da perdita di chance, ripetendo che “la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l’aspetto del mancato ricorso a cure palliative)”. Quindi, aggiunge la Corte, “l’evento di danno (e il danno risarcibile) sarà in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, purché allegato e provato (senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance)”».

Quindi cosa è successo?

«Per effetto di ciò, il Supremo Collegio ha dunque invitato il giudice di rinvio ad attenersi al seguente principio: “In caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include il danno da perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, giacché, tutte queste scelte appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali”».

Si tratta di principi che possiamo considerare ormai consolidati?

«Questo orientamento non è certo recentissimo, ma spesso fatica a trovare spazio nei giudizi di merito, dove ci si limita ad apprezzare unicamente la cd. “perdita di chance” di guarigione o quantomeno di maggiore (e migliore) sopravvivenza rispetto all’omessa diagnosi di una patologia ad esito infausto, ritenendo tale condotta irrilevante rispetto alla qualità della vita della paziente. Affermazioni del genere sono state però fortemente criticate dalla giurisprudenza di legittimità poiché, non solo non tengono conto del fatto che per quella omissione il paziente ha dovuto subire un prolungamento del suo stato di sofferenza, ma vieppiù dimenticano che, per lo stesso motivo, è stata preclusa la possibilità di scegliere cosa fare della vita restante (ivi compreso il ricorso cosciente a cure palliative) e, soprattutto, di come viverla, programmando l’essere persona nel modo ritenuto più congeniale. Il carattere distintivo rispetto alla perdita di chance risiede nel fatto che, pure quando la condotta omissiva non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della patologia, la durata ed il suo esito, ma risulti compromessa unicamente la sola (e diversa) qualità delle scelte di vita del paziente, si è comunque davanti ad un evento dannoso, costituito dall’aver limitato (se non del tutto escluso) il diritto del paziente di organizzare come meglio crede gli aspetti materiali e spirituali della propria esistenza residua».

Questo orientamento aggrava la posizione del professionista della sanità?

«Nell’ambito della responsabilità medica, la consacrazione della risarcibilità di questa specifica tipologia di danno non è senza conseguenze per il mondo dei professionisti sanitari. Pur volendo riconoscere tutta la necessità di approntare forme di tutela ad ogni pregiudizio umano obbiettivamente apprezzabile, sarà opportuno meditare altrettanto profondamente sui riflessi che questa apertura è destinata a produrre sull’intera categoria professionale sanitaria, laddove giunge ad ampliare il ventaglio di danni risarcibili fino a ricomprendere conseguenze, i cui confini risultano attualmente insondabili e che sarà comunque arduo preventivare sia in termini di uniformità risarcitoria, che di sostenibilità economica di colui che sarà chiamato a risponderne».

Cosa deve fare il professionista sanitario per evitare queste possibili condanne?

«Sotto un profilo più squisitamente professionale, è bene suggerire come, oltre al rinnovato impegno formativo che il professionista sanitario dovrà sempre più sostenere per ridurre, al minimo, il rischio di incorrere in qualsiasi tipo di errore diagnostico, costui sarà altresì gravato del delicato (e, forse, improbo) compito di rendere la sua comunicazione sempre più comprensibile ed accessibile al paziente e, se del caso, alla sua famiglia. Qualcosa meno di un’informazione completa, esaustiva e agevolmente comprensibile rispetto alla patologia riscontrata ed al suo connotato terminale potrebbe infatti diventare foriera di responsabilità per il professionista, e quindi di danni dal perimetro sempre più ampio e gravoso. Ed in questa scelta, il professionista della sanità è spesso drammaticamente solo ed impreparato per cui, per rispondere adeguatamente a questa esigenza, sarà opportuno alzare l’asticella formativa sia riguardo alle specifiche competenze professionali, che rispetto a quelle relazionali e di comunicazione, avendo cura di raccogliere prove idonee a dimostrare, in un eventuale giudizio, di aver fornito una corretta e completa informazione, tale che sia stato garantito al paziente il diritto di autodeterminarsi nelle sue ultime scelte esistenziali».

 

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