Lavoro e Professioni 23 Giugno 2020 10:41

Educatori professionali, Titta (Anep): «Spiegare e far rispettare il distanziamento è la parte più difficile del nostro lavoro»

Da un’esperienza negativa nate soluzioni innovative. Il presidente Anep: «Il lavoro a distanza potrebbe diventare una modalità integrativa di intervento, da utilizzare anche ad emergenza finita con coloro che non possono essere assistiti in presenza»

di Isabella Faggiano

Prima la paura di poter essere un pericoloso veicolo di contagio, poi la difficoltà di “prendere le distanze” da chi fino a poco prima vedeva in loro un importante punto di riferimento. Timori e problematiche con cui gli educatori professionali hanno dovuto fare i conti sia durante il lockdown che nella fase 2 della pandemia. «Ogni volta che andavo a lavoro – racconta Nicola Titta, presidente Anep, l’Associazione Nazionale Educatori professionali temevo di aver contratto il virus e di poterlo trasmettere a tutte le persone che incontravo nel corso della mia attività professionale quotidiana, tutti soggetti fragili e vulnerabili. Una possibilità non remota, considerando che sono almeno quattro gli educatori che hanno perso la vita a causa del Covd-19. Tanti altri si sono infettati superando fortunatamente la malattia».

Gli educatori professionali, infatti, non si sono fermati nemmeno durante la fase più critica della pandemia: «Gli unici per cui è scattato il lockdown – continua Titta – sono stati coloro che lavorano nelle scuole o nel mondo della formazione professionale, che si occupano di minori, disabili, bambini con bisogni speciali. Sono rimasti a casa perché, ovviamente, non potevano fare altrimenti, considerando la chiusura delle scuole e degli istituti formativi. Tutti gli altri educatori, da quelli che lavorano nei servizi per la salute mentale, per minori, anziani e disabili, a coloro che sono impiegati nelle strutture residenziali, hanno continuato la loro attività professionale».

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Il periodo del lockdown è stato anche un periodo di riflessione: «Abbiamo ripensato alla nostra professione – continua il presidente Anep – cercando di adattarla alla fase 2 che presto sarebbe arrivata. Il distanziamento doveva essere necessariamente trasformato in un distanziamento esclusivamente fisico e non sociale. La nostra professione si basa sulla relazione, di conseguenza i servizi territoriali e residenziali sono stati riprogettati per rimanere accanto alle persone anche se a distanza. Farlo è stato senz’altro complicato, ma ci ha consentito di sperimentare ciò che è possibile fare in ambito educativo e riabilitativo servendoci di strumenti tecnologici che in presenza non avremmo mai utilizzato».

Un’esperienza innovativa che potrebbe essere replicata anche quando l’emergenza sarà finita. «Abbiamo avviato dei progetti per raccogliere gli esiti del lavoro effettuato a distanza – dice Titta -, cosicché nel tempo possa diventare una modalità integrativa di intervento, da utilizzare con coloro che non possono essere assistiti in presenza».

Resta ancora in fase di riorganizzazione, invece, il mondo della formazione. «Nelle maggiori città italiane si stanno già mettendo a punto dei sistemi per creare delle aule virtuali, così da permettere a tutti di partecipare ai progetti formativi pur restando a casa. Sono tante le difficoltà da affrontare per adattare la professione dell’educatore alle nuove misure di sicurezza per contenere i contagi. Ma la più complessa – sottolinea Titta – è senz’altro una: la riorganizzazione delle relazioni interpersonali. Il distanziamento sociale è un concetto difficile da far comprendere, specialmente ad una persona disabile o con problemi relazionali. Come si fanno a trovare le parole giuste per dirgli che quando ci si incontra non ci si può avvicinare, toccare, abbracciare? Il nostro lavoro crea dei legami, fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi che ci poniamo. Come si fa a spiegare ad una persona con problemi cognitivi che non può toccarti, che non può salutarti avvicinandosi e che anche se è felice di vederti non può dimostrartelo? E ancora, come si fa a parlare ad un bambino autistico con una mascherina, quando è abituato a focalizzarsi non sugli occhi del suo interlocutore, ma sulla bocca? Indossando questo dispositivo di sicurezza gli impediamo di avere una modalità ulteriore di comprensione e di linguaggio. Ma, ovviamente, non ci sono alternative. In questo momento la sicurezza di tutti è la priorità assoluta e l’esperienza sul campo ci insegnerà – conclude l’educatore – come affrontare e superare anche queste difficoltà».

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