«Il rischio è che il virus entri da fuori. Per questo è attivo un triage in entrata che prevede la misurazione della temperatura a chiunque varchi la porta del carcere. Per ora stiamo facendo bene, chi è a rischio va in isolamento»
«Le carceri sono un micromondo ovattato che viaggia con regole proprie, dove tutto è amplificato. Immaginate cosa significa in questo momento di crisi tenere a freno la pressione all’interno, quando già all’esterno è ai massimi livelli». Le parole di Marco (nome di fantasia), medico penitenziario che vive quotidianamente la difficile realtà delle carceri, all’indomani delle sommosse che hanno interessato molti istituti penitenziari da nord a sud, ci introduce in una giornata di lavoro quotidiano dietro le sbarre ai tempi del Coronavirus.
Marco, ogni giorno lei varca quella porta per prendersi cura dei detenuti. Che cosa è cambiato con l’emergenza Covid-19?
«Alle problematiche già preesistenti come il monte ore elevato, si è aggiunta questa emergenza che significa utilizzo di mascherine, protezioni, distanze da rispettare e isolamento maggiore. Tutti fattori che hanno alzato inevitabilmente la temperatura all’interno delle strutture. In generale è molto più complicata la situazione dove la popolazione carceraria è multietnica. Gli italiani sono più comprensivi, capiscono la necessità di adottare delle restrizioni, come la sospensione delle visite che di fatto è già in vigore da oltre un mese. In altri casi, invece, il dialogo è inutile come abbiamo potuto constatare ieri dalle tante azioni di forza che sono state fatte all’interno di diverse strutture. Di fatto l’emergenza Coronavirus è stata strumentalizzata ed alcuni carcerati hanno creato disordini per tentare la fuga. L’emergenza è presente da un paio di mesi, forse si doveva prevenire la tensione in ambito carcerario con una maggiore informazione e un’assistenza psicologica in grado di allentare la tensione».
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A livello di protezione, avete adottato misure maggiori?
«L’unico rischio concreto è che il virus entri da fuori. Per questo motivo è attivo un triage in entrata che prevede alcune precauzioni da adottare. Chi varca la porta del carcere, sia che si tratti di un detenuto, di un operatore sanitario, di un medico o di un agente di polizia penitenziaria, deve misurare la temperatura e alla luce dell’esito della stessa si fa una visura anamnestica. All’interno delle carceri le visite dei parenti sono state sospese da un mese e questo ovviamente alimenta il malumore dei carcerati che, come abbiamo visto, è esploso ieri».
Si poteva fare qualcosa per evitare le sommosse?
«Il vero problema è la carenza cronica di personale che in circostanze come questa si fa sentire ancora di più. Ad esempio, non si è mai parlato di incrementare il numero dei medici in servizio, invece sarebbe opportuno. Già in una situazione di normalità siamo in emergenza, oggi con questa urgenza in alcune strutture siamo al collasso. E poi si sarebbe potuto fare qualcosa mettendo in atto delle strategie di comunicazione digitale che avrebbero tenuto basso il livello di tensione garantendo maggiore sicurezza. Mi riferisco a collegamenti via Skype in luoghi controllati».
Anche le sale audizioni con vetri e telefono stile Stati Uniti potrebbero risolvere in parte il problema dei colloqui.
«Certo, in quel caso non ci sarebbe il contatto fisico, ma sarebbe un’occasione per vedersi. Purtroppo, oggi le strutture carcerarie non sono attrezzate per questa soluzione. Piuttosto un’idea potrebbe essere quella di incrementare il numero delle telefonate tra i detenuti e i familiari. A seconda dei casi potrebbe essere utile sul piano psicologico per i detenuti».
Il rischio che qualcuno sia già infettato esiste?
«In questo momento tutto sembra essere sotto controllo. Stiamo facendo bene. Chi manifesta uno stato febbrile viene messo in isolamento precauzionale. Viene fatto il tampone a chi è sintomatico, dopodiché si aspetta l’esito e se negativo viene rimandato in sezione. Chi invece mostra febbre e tampone positivo, ma è asintomatico, viene messo in isolamento e, dopo 14 giorni, se ancora non è sintomatico viene rimandato in sezione».
Vengono rispettati i protocolli di protezione per medici penitenziari?
«Le linee guida del ministero della Salute dicono che occorre usare la mascherina chirurgica. Per la verità ora la polizia penitenziaria non usa nulla, a meno di casi conclamati. Noi medici, quando dobbiamo visitare pazienti con ipotetica condizione da Coronavirus, siamo forniti di tutti i dispositivi previsti dal protocollo come guanti e mascherina con filtro».
Oggi vi sentite protetti adeguatamente?
«Siamo forniti di tutto, perciò siamo soddisfatti e se anche persistono le problematiche di sempre come turni troppo lunghi, e buste paghe troppo leggere, ora abbiamo altre priorità che sono le misure di sicurezza e in quel senso siamo protetti. Un aumento in busta paga potrebbe essere la base per sopperire alle carenze di personale, a turni lunghi e faticosi che ci accompagnano anche durante le situazioni ordinarie, oggi però siamo davanti allo straordinario e nonostante tutte le difficoltà stiamo facendo bene».
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