Esperti di fama mondiale studiano i primissimi interventi di chirurgia robotica a Roma. Il professor Michele Gallucci (Direttore Urologia dell’IFO): «Aggiornamento e formazione decisivi per non perdere il treno dell’innovazione»
«Dalle sale operatorie del “Regina Elena” si fa scuola su interventi di grande complessità e con approccio completamente “intracorporeo”. L’urologia è stata la prima ma ora tutte le specialità chirurgiche degli Istituti utilizzano il robot. Posso tranquillamente affermare che il futuro della chirurgia è qui». Lo sottolinea il Commissario Straordinario IFO Marta Branca a margine di un meeting internazionale che ha confermato l’eccellenza italiana nel campo delle nuove tecnologie applicate all’ambito medico-sanitario. Oltre 300 urologi e 32 esperti mondiali in campo uro-oncologico si sono confrontati sulle innovative tecniche robotiche assistendo in diretta agli interventi eseguiti presso la struttura capitolina. L’appuntamento è stato coordinato da Michele Gallucci, Direttore dell’Urologia dell’IFO “Sant’Andrea”. Nel sottolineare le numerose possibilità aperte dalla chirurgia robotica, Gallucci ha rimarcato l’importanza della formazione e dell’aggiornamento professionale. Tematiche di forte attualità, non solo alla luce dell’obbligo ECM che vede numerosi medici in ritardo con i crediti nonostante la ravvicinata scadenza del 31 dicembre 2016, ma proprio per la necessità di adeguare il proprio grado di preparazione ai progressi della scienza, della ricerca e della tecnologia.
Professor Gallucci, dove può arrivare la chirurgia robotica in urologia?
«Proprio questo è il tema: ci sono limiti o non ci sono limiti? In realtà, dagli interventi eseguiti nella due giorni all’IFO sembra che limiti non ce ne siano. Siamo riusciti a coinvolgere i più grandi esperti del mondo nel campo dell’urologia. Non tutti, in questo momento, sono pienamente concordi, però sono stati fatti passi importanti e siamo arrivati a questi livelli dopo una collaborazione con il professore Inderbir Gill, Mihir Desai e Monish Aron della University of Southern California. Un team d’eccezione, con cui collaboriamo ormai da anni e che oggi ritroviamo a Roma per tirare le somme di tre anni di intenso lavoro sulle procedure chirurgiche robotiche. Adesso stiamo mostrando ciò che si può fare e discutendo se valga la pena o meno continuare, quale sono le possibili progressioni, le possibili innovazioni. Questo sarà il tema del prossimo congresso che, generalmente, facciamo ogni due anni».
Queste innovazioni implicano un’attenzione particolare all’aggiornamento della classe medica. Un tema, quello della formazione, che è sempre molto caldo, soprattutto in chiave ECM.
«Assolutamente sì, e questo è forse l’ostacolo maggiore in questo momento per la diffusione di queste tecniche. In particolare, risulta complicato introdurla tra le classi mediche più avanzate, ovvero tra i colleghi che hanno 50 o 60 anni. Io ne ho 65, eppure l’interesse e la curiosità sono talmente forti che mi hanno introdotto a queste tecniche robotiche, alle quali mi sono approcciato dopo aver eseguito almeno 20mila interventi a cielo aperto. Immagino, invece, l’appeal che questo tipo di tecnologie può avere tra i giovani, i quali però devono saper operare anche con i metodi tradizionali. Dal punto di vista formativo, nel complesso, ci ritroviamo dunque in una fase nuova, sicuramente più complessa rispetto agli anni passati. È ad ogni modo importantissimo non perdere il treno dell’innovazione per non mettere a rischio il nostro sistema sanitario, che resta uno dei migliori al mondo e non può correre il rischio di rimanere indietro».
Lei faceva riferimento al dislivello generazionale tra i medici nell’approccio alle nuove tecniche. E per i pazienti come funziona? Ci sono limiti, magari proprio legati all’età?
«Non esiste alcun limite d’età per questo tipo di tecniche, che sono mininvasive. Anzi, se nel giovane è importante la preservazione dell’immagine corporea, nel paziente anziano bisogna essere il meno invasivi possibile per avere meno complicanze. Insomma, è una chirurgia che si adatta a tutte le età, ma anche nell’età avanzata è particolarmente indicata perché il paziente dopo tre giorni riesce già ad alzarsi dal letto e questo ha una grande importanza, non solo sul piano psicologico, ma anche da quello della salute».
LA SCHEDA – All’Istituto “Regina Elena” si eseguono circa 400 interventi l’anno di chirurgia uro-oncologica, di cui 10 per l’asportazione totale del rene con trombectomia cavale, e cioè rimozione del trombo occludente la vena cava. L’ intervento è il gold standard in caso di cancro del rene che coinvolga la vena renale causando una trombosi neoplastica. L’ operazione è stata standardizzata e viene eseguita routinariamente con tecnica robotica in soli tre centri al mondo: a Roma all’Istituto Nazionale Tumori “Regina Elena”, alla University of Southern California e al PLA General Hospital di Pechino. Per la definizione dell’iter terapeutico del tumore della prostata la strettissima collaborazione tra chirurghi, radioterapisti e oncologi medici è un “must”. Il miglior trattamento ha portato i tassi di sopravvivenza per queste neoplasie all’80-90% a 10 anni dalla diagnosi, rendendo sempre più importante quindi l’attenzione agli aspetti relativi alla qualità di vita del paziente. E al ripresentarsi della malattia a livello locale la chirurgia robotica di salvataggio è un trattamento emergente e di avanguardia, un approccio, mini-invasivo e in alcuni casi risolutivo, che sta rapidamente guadagnando popolarità e consenso nella comunità scientifica e presso i pazienti. Similmente, quando il paziente colpito da tumore prostatico presenta una ripresa della malattia ricorrere all’asportazione dei linfonodi pelvici (linfoadenectomia pelvica e retro peritoneale di salvataggio) offre una maggiore possibilità di guarigione o comunque un più duraturo controllo della malattia. La possibilità di eseguire questo intervento con il robot ha notevolmente ridotto la morbidità di questa chirurgia. Quello della prostata è il tumore maschile per eccellenza: è infatti la neoplasia più frequente negli uomini, 35.000 sono le nuove diagnosi nel 2015. Ma anche le neoplasie della vescica e del rene hanno una elevata incidenza nella popolazione maschile: quello della vescica è il quarto tumore più frequente nei maschi con oltre 21.000 nuovi casi maschili e circa 5000 femminili nel 2015, il tumore del rene nello stesso anno ha colpito il doppio degli uomini rispetto alle donne, 8000 di sesso maschile contro i 4000 di sesso femminile.