Lavoro e Professioni 27 Gennaio 2021 11:11

Malattie inventate e “finte morti”, come i medici salvavano vite durante l’Olocausto

In occasione della Giornata della Memoria, raccontiamo le storie di medici e infermieri che sfruttarono la loro professione per salvare cittadini ebrei dai campi di concentramento. A Roma inventarono il “morbo K”, a Treviso il reparto Malattie infettive divenne la salvezza

Malattie inventate e “finte morti”, come i medici salvavano vite durante l’Olocausto

Nascondevano, proteggevano, arrivando persino a inventare nuove malattie pur di salvare gli ebrei dalla deportazione. Sono i tanti medici e infermieri che durante il buio periodo dell’Olocausto hanno lavorato nell’ombra, mettendo a rischio la propria vita per preservarne tante altre. La Giornata della Memoria ricorda ogni anno il dolore che l’uomo ha saputo infliggere all’uomo. Dolore contro cui tanti hanno combattuto dall’interno, senza sosta, per costruire un mondo migliore.

Tre medici romani e il “morbo K”

Una delle storie più interessanti riguarda il “morbo K”, la prima malattia che ebbe solo conseguenze positive sui loro pazienti. Si tratta di una sindrome totalmente inventata, anche in maniera irriverente, in quanto prende il nome dal generale nazista Albert Kesselring, comando supremo delle forze tedesche in Italia. A idearla tre medici dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, che subito lo etichettarono come «un virus contagioso e pericoloso, da cui stare ben lontani». Una definizione che oggi suona estremamente familiare.

Si chiamavano Giovanni Borromeo, primario, Vittorio Sacerdoti e Adriano Ossicini, era il 1943. Tutti e tre avevano rifiutato di tesserarsi per il Partito Fascista. I camici bianchi etichettavano i pazienti ebrei in attesa di deportazione come affetti dal morbo K, invitando i soldati tedeschi a non avvicinarsi per non rischiare di ammalarsi. Ovviamente, le persone stavano benissimo ma questa diagnosi li salvò dai rastrellamenti avvenuti nella Capitale e dai campi di concentramento. I sintomi erano tosse, nausea, vomito e mal di testa ma, avvertivano i medici, era altamente mortale.

Sono state oltre 50 le false cartelle cliniche compilate da Borromeo, Sacerdoti e Ossicini ai pazienti ebrei che arrivavano disperati in ospedale. I soldati non potevano fare molto altro che allontanarsi dalle case “appestate” e rinunciare alla cattura per non rischiare di raccogliere il morbo e portarlo tra gli ufficiali in trasferta. Lo Yad Vashem, l’Ente per la Memoria sulla Shoa, ha dato un riconoscimento a Borromeo per l’umanità e l’eroismo dimostrati.

Il dottor Vascellari e le sorelle Valenzini

Una storia simile, che coinvolge ancora una volta un virus sconosciuto, è quella del dottor Giuseppe Vascellari. Un medico di Vittorio Veneto (Treviso) che salvò così tre sorelle di fede ebraica dalla deportazione. Le tre donne – Amina, Regina e Sara Valenzini – erano le ultime tre cittadine ebree su cui scattò l’ordine di internamento. Erano anziane, di 75, 85 e 88 anni. Nel campo avrebbero trovato solo la morte.

Il dottor Vascellari, morto nel 1962, le fece ricoverare nel reparto Malattie Infettive dell’ospedale cittadino della Confraternita dei Battuti. In una piccola stanza isolata, nell’ala più remota. Ancora una volta i soldati tedeschi vennero frenati dalla paura della malattia sconosciuta che le affliggeva. Così le tre donne poterono rimanere in città e trascorrere con serenità i loro ultimi anni.

Irena Sendler, l’infermiera dei bambini di Varsavia

Indimenticabile la vicenda che coinvolse Irena Sendler, la giovanissima infermiera di Varsavia che salvò oltre 2500 bambini ebrei dallo sterminio. Nata nel 1910, in una famiglia socialista, imparò lo yiddish a soli cinque anni grazie alle sue amicizie e ai tanti pazienti del padre, medico, che visitavano il suo studio e spesso venivano curati gratuitamente. Da ragazza militava contro le discriminazioni attraverso le associazioni di studenti polacchi e, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, cominciò a lavorare come assistente sociale per il comune.

Già in questo contesto soccorse, con l’aiuto del direttore del dipartimento, i tanti ebrei oggetto di discriminazione e ad offrire loro un conforto. Nel 1940 Varsavia recintava il ghetto ebraico e 400mila ebrei venivano forzati a prendervi residenza, in condizioni igieniche precarie e con scarsità di cibo e medicine. Irena ottenne un lasciapassare come infermiera, formalmente per la disinfestazione, ma in realtà aprì la strada ad una rete di soccorso. Portava con sé cibo, vestiti, cure e si confondeva tra la folla indossando la stella di David.

Il “barattolo di vetro”

Quando, nel ’42, i tedeschi decisero di “liquidare il ghetto” Irena cominciò a militare nella Zegota, l’organizzazione segreta per aiutare gli ebrei, con il nome in codice di Jolanta. Vestita da infermiera, trasferiva i bambini nascondendoli nelle ambulanze. Per sfuggire al controllo dei soldati, a volte li addormentava con i sonniferi e li chiudeva in sacchi o casse, facendoli passare per malati di tifo. Così ingannava la Gestapo e faceva arrivare i bimbi dalla “parte ariana”, dove venivano raccolti in centri assistenza e poi affidati a nuova famiglie o orfanotrofi.

Venne arrestata il 20 ottobre 1943 e torturata per tre mesi. Zegota riuscì a salvarla dalla fucilazione, ma Irena dovette poi vivere in clandestinità. Ad oggi non è noto quanti bambini abbia salvato, ma se ne calcolano circa 2500. A lei è dedicata l’opera teatrale “Life in a Jar” di Norman Conrad. Il nome fa riferimento al barattolo di vetro dentro cui Irena conservò i veri nomi e i dati anagrafici dei bambini salvati. Quella lista, alla fine della guerra, aiutò tanti piccoli a ritrovare le loro famiglie e i membri sopravvissuti ai campi. Si dice che la giovane avesse sepolto il barattolo sotto un melo del suo giardino, che ha resistito a bombe e distruzioni. Proprio come la forza e l’idea dell’infermiera Irena.

 

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