Mattia, Marco, Jaqueline, Donatella, Sonia e Paola raccontano a Sanità Informazione di medici, infermieri, anziani, che non sono riusciti a vincere la battaglia contro il virus, ma continuano a vivere nei loro cuori
Sono trascorsi due anni da quel 18 marzo 2020 quando Mattia Maestri, il primo paziente italiano ad aver ufficialmente contratto il Covid è uscito dal coma ed ha ricominciato a vivere. Oggi Mattia sta bene, nessun effetto long Covid a turbare la sua quotidianità fatta di lavoro, sport – che ha ricominciato a praticare dopo un lungo stop – e famiglia, ma nel giorno del ricordo delle vittime di Covid il suo pensiero va a tutti coloro che non ce l’hanno fatta e in particolare al padre Moreno «Lui è morto il giorno della Festa del Papà quando io ero sveglio da 24 ore. Vedo questa sincronia di eventi come un atto di generosità di mio padre che ha scelto di lasciare a me il posto su questa terra, e l’ha fatto quando ha capito che io mi sarei salvato».
Poche parole cariche di emozione che cercano di dare un senso ad un dolore troppo grande, ma nella voce di Mattia il ricordo di quei giorni è anche un profondo senso di gratitudine verso i medici e gli infermieri che l’hanno salvato. «Ho cominciato a riprendermi dopo un mese dal ricovero, quando il personale sanitario iniziava a scarseggiare, eppure, nonostante questo, tutti erano disponibili e li ricordo con grande affetto – racconta Mattia – In particolare si è instaurato un rapporto di amicizia con il professor Raffaele Bruno del Policlinico San Matteo di Pavia che sento tutti i giorni e ci frequentiamo con le famiglie. Devo dire che questa brutta avventura mi ha regalato un nuovo amico».
È stato tra i primi medici a morire per Covid, era il 17 marzo 2020 e Ivano Verzulli medico di medicina generale e dello sport di Maleo comune nella zona rossa, a pochi chilometri da Codogno, dopo 15 giorni di ricovero si arrendeva al virus che aveva combattuto a mani nude per giorni. Donatella, la moglie, non si dà pace: «Da novembre mi diceva che c’erano troppe polmoniti che non riuscivano a curare e che troppa gente era già morta quando ancora non si parlava di pandemia. Lui aveva segnalato l’anomalia, ma siccome erano soprattutto anziani a morire, non era stato dato peso al fenomeno – racconta – poi a febbraio subito dopo il 21 ha iniziato ad accusare i primi sintomi, ma tanti colleghi stavano male, erano in quarantena, e allora lui non si risparmiava». Senza guanti e mascherine visitava i pazienti della zona rossa: «Diceva che non poteva fermarsi perché la gente era completamente scoperta».
E così lui è andato avanti fino a quel 3 marzo quando è svenuto in macchina ed è stato portato in ospedale a Codogno. Il responso è stato impietoso: polmonite bilaterale interstiziale. È stato portato a Voghera, poi all’ospedale di Varzi e poi ancora a Voghera, finché il 16 marzo è arrivato a Milano al San Giuseppe dopo è morto il giorno successivo. A distanza di due anni permane un senso di rabbia nella moglie e nei figli di 37 e 32 anni: «È stato sfortunato, erano i primi giorni della pandemia e nessuno sapeva come curare questo virus, ma lo Stato non ha tutelato i sanitari, sono stati mandati a combattere un nemico invisibile senza protezioni, le mascherine sono arrivate i primi di marzo, quando ormai in molti erano stati contagiati».
Ivano aveva 61 anni, era uno sportivo, andava in bicicletta tutte le domeniche nella pianura padana; eppure, il virus non l’ha risparmiato «Nessuno in famiglia è stato contagiato e anche lui è morto con due tamponi positivi – dice Donatella – non sono convinta che sia proprio morto di Covid. Ma ora è tardi per ogni recriminazione e poi lui era un positivo, mi scriveva che andava tutto bene anche se si lamentava della febbre che non passava e nell’ultimo messaggio prima di essere intubato il 14 marzo mi ha scritto “ti chiamo appena mi svegliano”». Un risveglio che non c’è mai stato. «La cosa più brutta è che sono morti soli, senza il calore di un famigliare vicino. Almeno prima di essere intubati avrebbero dovuto farci entrare, con le dovute protezioni, per vedere i nostri cari; invece, mi hanno restituito una bara. Questo è quanto si fa più fatica ad accettare».
Paola è una infermiera dell’ATS, si prende cura dei pazienti Covid a domicilio e quando nel marzo 2021 suo marito si ammala e poco dopo muore, in lei cresce un senso di colpa che ancora l’accompagna insieme a rabbia e dolore. «Lui accusava un po’ di stanchezza, ma non aveva sintomi evidenti e non aveva avuto contatti con persone contagiate; quindi, abbiamo atteso un paio di giorni prima di fare il tampone e quando è risultato positivo è stata sottovalutata la portata della malattia, perché la saturazione a riposo era a 98 – racconta la donna -. Dopo quattro giorni, è stato ricoverato, ma la situazione è precipitata e dieci giorni dopo è deceduto. Non è stato messo in terapia intensiva perché secondo le regole che si sono dati gli anestesisti in caso di scarsità di posti, lui per età e per patologie di base non rientrava tra coloro che avevano più chance di sopravvivere in terapia intensiva e quindi la sua unica speranza era la c-pap».
Una decisione che Paola da infermiera comprende, ma che non calma il suo stato d’animo. «Non sono stata abbastanza oggettiva – si rimprovera – perché non eravamo alla prima ondata e avrei dovuto capire che le sue condizioni erano gravi per le patologie pregresse che aveva e che lo mettevano tra i pazienti a maggior rischio. E poi provo rabbia verso un servizio sanitario che ha mostrato lacune anche nella terza ondata. Non era attrezzato per rispondere in modo tempestivo alle persone che avevano contratto il Covid, sia in termini di prevenzione che di presa in carico e i vaccini per i fragili come mio marito non erano ancora disponibili».
«Era il 10 aprile 2020 alle due di notte quando mia mamma è deceduta a causa del Covid». Il racconto di Marco, infermiere ospedaliero inizia dal momento più doloroso, quando ha ricevuto la telefonata con la quale veniva comunicato il decesso della donna. «Lei è stata una dei tantissimi anziani che la variante Alfa si è portata via. Aveva 82 anni e da qualche tempo era andata con la sorella in una casa di cura del vercellese per alcuni problemi cognitivi che aveva manifestato – ricorda Marco -. Purtroppo, anche lì c’è stata una strage di nonni, come nelle RSA lombarde. Un giorno mi chiamano per dirmi che la videochiamata che eravamo soliti fare non era fattibile perché la mamma aveva problemi intestinali, io da infermiere operativo sul campo, ho subito capito che si trattava del maledetto virus, ma loro hanno minimizzato l’episodio, per poi, due giorni più tardi, comunicarmi che la mamma era deceduta all’ospedale di Biella dopo un ricovero d’urgenza nelle ventiquattro ore precedenti».
Marco si interrompe, fa un sospiro e poi riprende «Mi hanno restituito la bara e dato la possibilità di tumularla. Lei non aveva dato indicazioni in merito alla cremazione e poi in quei giorni non avevano luoghi per conservare le bare perché erano arrivati molti feretri da Bergamo». «Il mio essere infermiere ha reso il dialogo con il colleghi vercellesi molto asciutto, senza alcun riguardo per le mie emozioni – ammette Marco – nel ricordare i dettagli forniti sugli ultimi attimi della mamma hanno infarcito il racconto di particolari che avrei preferito non conoscere, ormai il dolore è metabolizzato ma sentirmi dire che è morta sola è una ferita che ancora sanguina». A distanza di un anno dalla morte di sua madre, Marco nel 2021 decide di mettersi a disposizione dodici ore al giorno per praticare e preparare i vaccini. «Mi occupo di diluire il siero – spiega – Non mi sono risparmiato e ogni dose inoculata ha un significato speciale: regalare in questo modo, metaforicamente, un respiro a mia mamma. Quindi ho proseguito il mio percorso professionale cercando di allentare il senso di colpa per aver ricoverato la mamma in una RSA con un impegno attivo nella vaccinazione. Ora siamo in un momento di calma apparente, ma la guerra contro il virus non è vinta, anzi il numero dei positivi sta crescendo di giorno in giorno e in ambito ospedaliero le posso dire che siamo già nella quinta ondata».
Jaqueline è una giovane infermiera del pronto soccorso di un grande ospedale milanese, sin dai primi giorni della pandemia accoglie i pazienti gravi, li vede morire, in poche ore, alcuni nel sonno, e quando il virus colpisce anche lei con una polmonite interstiziale il timore di non riuscire a farcela è troppo grande. «Non dormivo per paura di non svegliarmi più – ricorda -. Sono andata via di casa per non infettare i miei famigliari – marito e tre bambini piccoli – e nella solitudine dell’appartamento di mio fratello, costringevo mia sorella al telefono per ore pur di non chiudere gli occhi». L’isolamento di Jaqueline dura cinque settimane, dal 18 marzo al 2 maggio 2020, con geloni ai piedi, pelle che si squamava e poi rush sul viso e sulla schiena. Un calvario che ha profondamente segnato l’infermiera: «Quando sono rientrata al lavoro, nell’area protetta del Covid, un senso di paura mi ha pervaso, e ogni volta che vedo un paziente grave rivivo quelle sensazioni».
«Mara era una ragazza che amava tanto il suo lavoro, faceva l’infermiera con passione – inizia così il ricordo di Sonia che a stento trattiene le lacrime – Il fisico è sempre stato esile e nel 2018 ha iniziato ad accusare i primi problemi nel dover sostenere dodici ore di turno ospedaliero. Secondo lei dopo otto, nove ore il suo cervello andava in deficit e non riusciva a reggere turni così lunghi». La donna, già provata dal carico di lavoro che cresce ancor più con la pandemia, a gennaio 2021, si ammala gravemente di Covid.
«Ha febbre alta e dolori molto forti – racconta Sonia -, resta a casa in isolamento un mese poi rientra al lavoro in un reparto ancora più impegnativo e la situazione precipita». Nel mese di luglio Mara si ammala di tumore al seno, viene operata e il problema sembra risolversi senza dover affrontare pesanti cure. La malattia però mina ancora di più la fragilità della donna che non riesce a riprendersi e il 5 novembre, distrutta psicologicamente e provata fisicamente, decide di togliersi la vita. «Lei aveva un attaccamento fortissimo al lavoro, era la sua vita e non poterlo svolgere secondo le sue attitudini, era un dolore troppo forte da sopportare. Mi diceva sempre che le davo forza – recrimina oggi Sonia -, purtroppo non è bastata». Oggi Mara, come tutti i suoi colleghi caduti nella battaglia contro il Covid, vive nel ricordo e nelle parole di quanti l’hanno amata.
Si ringrazia OrgogliosaMente Infermieri per le testimonianze
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