Intervista al professore Mauro Bacci, Ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Perugia: «La pandemia da Covid-19 ha peggiorato la situazione»
Il Covid-19 sembra aver dato un colpo abbastanza duro alla pratica della diagnostica necroscopica, ovvero alle autopsie. Ad inizio pandemia, quando si sapeva poco o nulla del SARS-CoV-2, le autopsie furono bloccate perché non si sapeva se il cadavere potesse essere contagioso o meno. Con il tempo e con diverse ricerche si è poi capito che un organismo senza vita non può trasmettere il virus, e dunque si è ricominciato a studiare i corpi per capire il “percorso” della patologia per acquisire informazioni importanti per capire il modo in cui questa agisce.
Ma la pratica non se la passava bene neanche prima, stando a quanto sostiene il professore Mauro Bacci, Ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Perugia. Il professore ha preso parte ad un recente webinar organizzato dal provider ECM di Consulcesi Club dal titolo “La gestione integrata del rischio clinico e del contenzioso”.
«La tecnica della diagnostica necroscopica è stata messa un po’ da parte negli ultimi anni – spiega il professor Bacci – perché la diagnostica nel vivente è migliorata sia dal punto di vista della qualità che della quantità. Per questo si è ritenuto che la pratica dell’indagine necroscopica fosse superata». In realtà, però, l’autopsia resta «la principale fonte di conoscenza che abbiamo», in quanto «nessun altro tipo di indagine è in grado di indagare a 360 gradi, in tutti i suoi aspetti, le reazioni patologiche ad una determinata condizione».
Questa “crisi” ha fatto venir meno anche la «consuetudine, in particolare da parte di chi era più versato a portare avanti questa attività». In sostanza, la centralità che ha acquisito lo studio sul corpo vivente ha messo in secondo piano lo studio sul corpo non vivente. E questo aspetto «ha portato le squadre anatomopatologiche ad abbandonare, forse anche per motivi di tempo, la pratica dell’autopsia». E se chi è un esperto in questa attività è il primo a praticarla di meno, è evidente che anche i più giovani, coloro i quali imparano da questi esperti, hanno meno possibilità di esperirla ed esplorarla.
Il problema del minor ricorso alle autopsie «si è riversato anche nella formazione», in quanto «gli studenti si laureano sempre più spesso senza aver visto un corpo umano e senza aver mai toccato con mano le manifestazioni d’organo delle singole patologie. Questo è emerso in maniera più lampante proprio durante questa pandemia – spiega il professore –, visto che», in particolare nei primi mesi, «l’attività autoptica è stata disincentivata per il timore del contagio, che poi è stato dimostrato non esistente».
Insomma, le giovani leve della medicina «sono meno addestrati e abituati» alla pratica, e questo determina «una perdita di confidenza» con la stessa. «Il giovane studente che non ha fatto pratica autoptica sarà il clinico di domani che non richiederà un riscontro diagnostico quando un paziente morirà».
Ma capire le reali cause di un decesso è fondamentale: «In assenza di questo tipo di accertamento tutto resta avvolto da un grigiore che non rende chiari i singoli passaggi» che hanno portato alla morte. «Il colloquio del patologo con il clinico – conclude il professor Bacci – di fronte al cadavere ha proprio lo scopo di chiarire questi aspetti».
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