Dall’indagine Anaao Assomed risulta che negli ospedali italiani lavorano sempre più donne, ma trovano difficoltà nel far valere i propri diritti. Bassi anche gli indici di gratificazione professionale e di pari opportunità di carriera. «Stentano a inserirsi non solo in quelli ospedalieri, ma in tutti i contesti manageriali. Il primo motivo è, semplicemente, una resistenza al cambiamento, che è presente in modo trasversale», sottolinea la delegata della Federazione Europea dei Medici Salariati
Resistenza al cambiamento, timore di impennata dei costi, e una discreta dose di maschilismo. Sarebbero questi gli “ingredienti per un disastro”, vale a dire gli scoraggianti risultati della recente indagine promossa da ANAAO Assomed, e realizzata con la collaborazione di AAROI-EMAC e SNR, tra i paesi membri della Federazione Europea dei Medici Salariati (Fems) per conoscere le condizioni lavorative delle donne medico in Europa. Indagine in cui l’Italia è finita penultima a livello europeo per quanto riguarda la percezione di soddisfazione lavorativa da parte delle professioniste della sanità. Il dato che accomuna invece le donne medico di tutta Europa è una scarsa conoscenza delle norme a tutela della professione. Sanità Informazione ha approfondito la questione con la dottoressa Alessandra Spedicato, Delegata FEMS e relatrice del convegno di presentazione della survey.
I risultati della ricerca promossa da Anaao Assomed che ha coinvolto i Paesi aderenti alla FEMS (Federazione Europea Medici Salariati) ha evidenziato che le donne medico in Italia si sentono discriminate da colleghi e pazienti e sono in cerca di una maggiore gratificazione professionale e di maggiori possibilità di ricoprire ruoli ai vertici. Insomma, come abbiamo fatto a finire in coda alla classifica europea, davanti solo alla Bulgaria?
«La prima motivazione è sicuramente la mancanza di un contratto che ci riconosca alcuni aspetti, anche contributivi, che possono aiutare nella gestione e nella conciliazione di lavoro e famiglia. Il secondo motivo è di carattere culturale: uno studio ha dimostrato che fin dalle scuole di specializzazione gli studenti maschi sono considerati più abili, gli vengono riconosciute più possibilità e più rispetto in confronto alle colleghe donne. Questo studio risale al 2016 ed è stato condotto in Svezia, uno di quei Paesi considerati molto avanti per quanto riguarda il welfare e le politiche di pari opportunità. Un altro punto è da correlarsi ai carichi di lavoro negli ospedali italiani, che sono aumentati in modo vertiginoso nel corso degli anni, a causa della carenza di personale e del blocco del turnover, e che sono ricaduti sui professionisti in servizio. La percentuale di donne medico negli ospedali italiani sta crescendo sempre di più perchè le vecchie generazioni erano perlopiù composte da uomini che ora stanno andando in pensione, per cui gran parte della nuova forza lavoro è di sesso femminile. A questo aggiungiamo che le professioniste in gravidanza non vengono sostituite, perchè nonostante ci sia una legge che lo prevede, spesso i tempi della burocrazia in Italia per cercare una sostituzione di maternità sono così lunghi che il periodo di maternità finisce e la collega deve tornare in servizio».
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Lei ha sottolineato, durante il suo intervento alla presentazione dei risultati dell’indagine, che le donne in posizioni di potere non sono solo un obiettivo da raggiungere, ma una risorsa. C’è infatti una particolare attitudine femminile al lavoro di squadra e ad aderire a un modello di leadership condivisa. Perchè questi modelli stentano a inserirsi nei contesti ospedalieri italiani?
«Stentano a inserirsi non solo in quelli ospedalieri, ma in tutti i contesti manageriali. Il primo motivo è, semplicemente, una resistenza al cambiamento, che è presente in modo trasversale. Sovvertire le abitudini è la cosa più difficile da ottenere in una qualsiasi popolazione. Il secondo motivo riguarda invece i costi: proporre una leadership condivisa, con quindi due o più vertici a gestire un’azienda – in questo caso un ospedale – moltiplicherebbe i costi. Eppure, molti studi hanno dimostrato che la gestione delle aziende ospedaliere è così complessa da rendere di fatto impossibile che sia una sola persona a poter gestire tutto. Dobbiamo iniziare a pensare ai ruoli di potere non come posizioni di predominio sui dipendenti ma come metodo per tirar fuori dai dipendenti il meglio di loro… e questa è un’attitudine prettamente femminile, basata sull’empatia, il saper aiutare il prossimo ad esprimere al meglio le sue potenzialità. Uno studio interessante condotto quest’anno ha evidenziato vedere una donna in una posizione di potere aiuta altre donne ad acquisire consapevolezza ed empowerment nell’esprimere le proprie abilità».
Un tratto in comune per le donne in tutta Europa è risultato essere la scarsa conoscenza della normativa a tutela della professione. Cosa si può fare per migliorare questo aspetto?
«C’è innanzitutto poca educazione alla legislazione vigente e poca conoscenza tra i colleghi di quelli che sono i proprii diritti e doveri. È anche compito del sindacato formare ed informare non solo i suoi iscritti ma tutti i lavoratori che potrebbe rappresentare. In secondo luogo, le leggi in questione non vengono applicate. In Italia, ad esempio, abbiamo un’ottima legislazione in merito ai Comitati Unici di Garanzia (CUG) che potrebbero svolgere un ruolo di tutela e supervisione nei confronti dei lavoratori e lavoratrici in difficoltà. Ebbene, i CUG all’interno delle aziende ospedaliere sono di fatto inesistenti. Quello che molte colleghe italiane ed estere hanno sottolineato nella survey è che le leggi ci sono, ma se non vengono applicate siamo di fronte a due possibilità: o non sono buone leggi, o sono inutili».