In occasione della Giornata dell’infermiere, la FNOPI ha raccolto in un documento tutti i dati principali, i numeri e le problematiche della professione infermieristica in Italia
Mentre il numero di medici in Italia è superiore alla media dei Paesi dell’Unione europea, quello degli infermieri è molto più basso. Lo conferma il “Profilo della Sanità 2019” dell’Italia pubblicato dall’OCSE e dalla Commissione Europea nel 2020, riportato in un documento redatto da FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche) in occasione della Giornata dell’infermiere. In questa scheda sono presenti i dati principali, i numeri e le problematiche della professione infermieristica in Italia.
Come detto, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico l’Italia aveva 4,0 medici per mille abitanti nel 2007 (rispetto ad una media Ue del 3,6), mentre si impiegano meno infermieri rispetto a quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale (a eccezione della Spagna) e il loro numero è notevolmente inferiore alla media dell’UE (5,8 infermieri per mille abitanti contro gli 8,5 dell’UE).
Secondo i dati Eurostat (l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea), nel 2016 l’Italia aveva 557 infermieri ogni 100mila abitanti (negli anni successivi sono diminuiti), mentre sei Paesi dell’Ue a 28, tra cui i maggiori partner (come Germania e Francia), superavano i mille (dai 1.172 del Lussemburgo ai 1.019 della Francia) e altri sette, tra cui il Regno Unito, erano comunque tra i 981 infermieri per 100mila abitanti della Danimarca e i 610 dell’Estonia. «Anche volendo solo raggiungere il livello medio di questi Paesi – si può leggere nel documento FNOPI –, in Italia mancherebbero tra i 50 e i 60mila infermieri».
Dall’ultimo contratto, prima di quello del 2018, per ragioni di contenimento economico, si sono susseguiti numerosi blocchi del turnover (il ricambio fisiologico del personale) superati solo dai provvedimenti introdotti dal DL Crescita nel 2019. La differenza totale è di -8.397 professionisti, considerando comunque che in anni intermedi (nel 2017 ad esempio) la carenza è stata anche maggiore.
«Tra i provvedimenti e gli interventi in emergenza che si sono susseguiti nel periodo della pandemia da Covid-19 – si può leggere ancora nel documento –, uno in particolare, il decreto Rilancio (legge 44/2020), ha previsto l’integrazione degli organici infermieristici, prima con contratti flessibili, poi, dal 2021, con contratti a tempo indeterminato. In particolare, per quanto riguarda l’infermiere di famiglia/comunità, che ha un ruolo forte sul territorio anche secondo le previsioni del Recovery Plan inviato a Bruxelles. Tuttavia, l’intervento, seppure assolutamente meritorio, è parziale e copre le necessità legate all’emergenza, perché, parametrando il numero di cronici e non autosufficienti alle necessità espresse di assistenza territoriale, la FNOPI ha quantificato un numero ottimale a regime di infermieri di famiglia/comunità circa doppio rispetto a quello finora programmato».
Come riportano i Report Inail, gli infermieri sono la categoria di personale sanitario maggiormente contagiato dal SARS-CoV-2. Tuttavia, con la comparsa dei vaccini (gli infermieri sono stati tra i primi ad essere vaccinati), si registra una flessione delle infezioni. Per quanto riguarda invece i decessi degli infermieri, dai grafici si nota un numero maggiore in particolare (ma non solo) nelle Regioni soggette alla prima fase della pandemia, quando, cioè, non c’erano sufficienti Dpi (Dispositivi di protezione individuale) per garantire la sicurezza degli operatori impegnati h24 in prima linea. La mortalità degli infermieri sul lavoro segue l’andamento di quella dei casi registrati nella popolazione, in particolare con picchi in entrambi i casi ad aprile e novembre 2020.
Pochi infermieri riducono anche il livello di assistenza erogato dai servizi. Questo è un fatto ormai evidente anche dai Report internazionali sopracitati. Esiste, tuttavia, un preciso Studio internazionale che mette in correlazione il numero di assistiti in carico a ogni infermiere (nel servizio pubblico) e lega, a ogni paziente in più, rispetto a uno standard medio di 6 per professionista, un rischio aumentato di mortalità del 5-7% (ma in alcuni servizi, come le terapie intensive o l’assistenza pediatrica, il rapporto diminuisce a 4 e anche a 2 pazienti per infermiere).
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