«Milioni di pazienti cardiologici non sanno di esserlo e potrebbero scoprirlo troppo tardi. Diagnostica, terapie e monitoraggio dei risultati delle procedure da recuperare con urgenza»
È una cardiologia “cenerentola” della sanità quella di cui racconta a Sanità Informazione il professor Ciro Indolfi, presidente della SIC (Società Italiana di Cardiologia) e Direttore dell’Istituto di Cardiologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, orfana di posti letto in reparto e in unità di terapia intensiva cardiologica, vittima sacrificale dell’emergenza sanitaria da Covid-19. A pagarne lo scotto i pazienti cardiovascolari: sottotrattati nell’acuzie, a causa della difficoltà di accesso ai reparti dedicati, molti convertiti a rianimazioni Covid-19, sottotrattati nella prevenzione e nelle cronicità, con un minor consumo di farmaci a causa del calo delle visite e, di conseguenza, delle diagnosi.
«Il sottotrattamento dei pazienti cardiologici durante la pandemia si inserisce in quel fenomeno più ampio che ha riguardato il minor consumo di farmaci in generale da parte della popolazione di pazienti, cronici e acuti: meno visite, meno diagnosi, meno terapie. Il punto è che le cardiologie sono state tra le principali vittime sacrificali di questa pandemia: in alcune Regioni le terapie intensive cardiologiche sono state le prime ad essere convertite in rianimazioni Covid-19, in un momento in cui la misura è stata dettata forse più dal timore di finire in zona arancione piuttosto che dalla reale esigenza epidemiologica, collocandosi in una fase in cui la campagna vaccinale da un lato, e la minore pericolosità delle varianti in circolazione dall’altro, avevano già sensibilmente cambiato i dati dei ricoveri in TI per Covid-19. Dal punto di vista organizzativo le Cardiologie hanno sicuramente sofferto».
«Ad oggi la necessità è di recuperare milioni di visite cardiologiche non effettuate durante le fasi iniziali della pandemia. Ci sono moltissimi pazienti cardiologici che non sanno di esserlo, oltre ai pazienti cardiologici acuti che non hanno avuto accesso alle terapie intensive perché convertite in rianimazioni Covid-19. A mancare oggi è una programmazione di risorse che garantisca in modo omogeneo sul territorio di poter recuperare questo gap diagnostico e terapeutico. Si sente la necessità di un controllo su tutto il territorio nazionale dei sistemi di diagnosi e cura. Ad oggi in alcune Regioni non sono rimborsate terapie e farmaci che invece lo sono in altre, in barba ai criteri di equità ed appropriatezza. A questo si dovrà mettere mano con dei correttivi adeguati».
«C’è quella che potrebbe definirsi la questione meridionale della sanità: ospedali fatiscenti, attrezzature obsolete, personale demotivato e sottodimensionato. L’alta specializzazione viene comunque ricercata negli ospedali del Nord. La migrazione sanitaria non si combatte con le parole, esortando i pazienti a rimanere a curarsi al Sud, anche perché i pazienti non sono certo degli sprovveduti. La migrazione sanitaria si combatte solo lavorando per l’eccellenza sanitaria al Sud».
«Credo che si stia riponendo nella telemedicina un’attenzione ed una fiducia eccessiva per risolvere i problemi della sanità italiana. Non si comprende che il vero punto su cui investire sono posti letto, soprattutto per gli acuti, mettere gli ospedali a norma e dotarli di attrezzature innovative per la diagnosi e cura. Sono necessari ospedali che funzionano bene perché, che ci piaccia o no, per le patologie acute e gravi servono solo l’ospedali efficienti e moderni. Parliamo anche dei Pronto Soccorso, dove i degenti sostano ore ed ore, a volte persino accanto a pazienti già deceduti. È chiaro, la telemedicina è un aspetto che può essere utile ed interessante, ma non credo sia oggi la priorità nel nostro Paese rispetto all’organizzazione della gestione dei pazienti acuti, delle patologie tempo dipendenti, del monitoraggio degli esiti ed infine della digitalizzazione dei dati sanitari».
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