«Riorganizzare la rete della intensività, consolidare la prevenzione, riorganizzare le strutture no-Covid e investire sul territorio». Queste le linee guida secondo Francesco Ripa di Meana, presidente della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, che aggiunge: «Siamo un Paese in cui accusare a volte sembra più importante di risolvere»
Il 4 maggio l’Italia entrerà a piccoli passi nella “Fase 2”. Da quattro giorni il numero dei positivi è in calo, anche se resta alto quello dei morti. Nei reparti di terapia intensiva, i letti continuano a liberarsi e i direttori sanitari guardano a una riorganizzazione di ospedali e strutture. Ma prima di poter costruire un nuovo piano, è necessario riflettere sugli errori fatti in questi primi mesi e costruire sulle buone pratiche adottate. Sanità Informazione ha intervistato Francesco Ripa di Meana, presidente della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO) e direttore generale dell’IFO Istituti Fisioterapici Ospitalieri di Roma, per fare un quadro di quello che ci attende.
L’Italia si avvicina alla cosiddetta “Fase 2”, cosa significherà questo nuovo step per le strutture sanitarie?
«La caratteristica essenziale della “Fase 1” è stata prendere decisioni, per aprire terapie intensive, dotarci di strumenti, anche informatici e per creare relazioni tra ospedali e territori. Ora dobbiamo muoverci nello stesso modo anche in questa nuova fase. Sono quattro le aree su cui agire. La prima è la rete della intensività. In questi mesi abbiamo quasi raddoppiato i letti in terapia intensiva e compresso l’attività ordinaria. Sono state create aree destinate esclusivamente ai pazienti Covid-19 perché l’emergenza lo richiedeva. Questo ha portato a comprare molte attrezzature e ad assumere personale, e ora ci troviamo, probabilmente, a dover ridurre questa offerta. E la prima questione che si pone è quanto la ridurremo, probabilmente alcuni ospedali concentreranno l’attività Covid per il futuro e altri dovranno tornare alla normalità. Sarà importante stabilire quanta parte dell’intensività recentemente attivata dovrà rimanere disponibile, in quanto utile se dovesse ripresentarsi una nuova fase epidemica.
Il secondo aspetto è quello degli ospedali “no-Covid”, che devono essere attrezzati a difendersi, a difendere i loro pazienti oncologici e cronici e le loro sale di attesa dai pazienti con il virus, ma anche poter operare con una presenza improvvisa del Covid.
Poi c’è la prevenzione: i nostri dipartimenti di prevenzione effettivamente in questi ultimi anni si erano abituati a lavorare poco sull’infettivo e molto sulla cronicità, o sugli adempimenti, le procedure e gli accreditamenti; ora si ritrovano invece con un problema di tracciamento degli eventuali positivi, quindi bisognerà provvedere a consolidarli.
Infine, il territorio, su cui dobbiamo investire, perché effettivamente noi non possiamo più pensare che ogni emergenza possa risolversi solo sull’ospedale. L’abbiamo imparato a spese nostre, dei pazienti, degli operatori e quindi dobbiamo investire sulla capacità di intervenire sul territorio, anche per tenere i pazienti cronici a casa e lontani dagli ospedali».
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Negli ultimi giorni si è parlato molto di “Immuni”, la nuova app per il tracciamento dei contagi. Potrà davvero aiutare il Sistema Sanitario Nazionale?
«Superando le difficoltà che sono a monte, nello stesso stato giuridico di cittadini liberi di spostarsi senza controlli, utilizzare questo strumento per cercare di clusterizzare i contatti di un positivo diventa una priorità assoluta. In alcune regioni anche noi abbiamo messo in pratica modelli che rispondano a questa necessità, penso alla georefertazione dei positivi. Ma questo non basta, perché l’abbiamo fatto dopo e l’abbiamo fatto senza sapere tutto. In questo caso si tratta di dotarci di uno strumento molto rapido nel dire quali sono stati i singoli contatti di ognuno, e rapido significa anche superare la difficoltà del basarci solo sulle informazioni del paziente, che spesso non vuole dire tutto. Credo che questo sistema di app sarà molto utile e necessario, andrà integrato con la telemedicina e i sistemi esistenti. Ci cambierà la vita e anche il modo di fare servizio, perché sapremo più cose di quante ne sappia lo stesso paziente».
Facendo un bilancio di questo primo periodo, quali sono state le criticità che avete rilevato?
«Inizierei con la discrasia temporale tra il fatto di sapere che il virus circolava e averne la certezza dovendo reagire alle conseguenze della presenza del virus. Il ritardo nel renderci conto di tutto ciò è stata la prima criticità, che abbiamo rilevato in tutti i Paesi. La seconda è che questa emergenza ha fatto emergere una differenza tra domanda e offerta di servizi. In Italia abbiamo scelto di avere un numero di letti di terapia intensiva che è sempre stato tarato per affrontare l’ordinarietà. All’inizio di questa emergenza la quantità di gente che aveva bisogno di intensività si è rivelata rapidamente maggiore rispetto a quella che potevamo offrire, anche sul territorio. L’efficacia in termini di prontezza della risposta ed efficacia degli strumenti, in modo che il territorio fosse in grado, per la parte che gli compete, di mettere sotto controllo la situazione arriva solo due mesi dopo, adesso, ma all’inizio il sistema si è dimostrato, nella gran parte del Paese, meno pronto del necessario.
Aggiungerei le difficoltà del mercato dei dispositivi di protezione individuale e delle attrezzature sanitarie per le emergenze. Non è stato facile acquistare questi strumenti, ci siamo visti scippare alcune attrezzature da altri Paesi e abbiamo sopperito con le scelte e le decisioni. Alcune di queste criticità sono tipiche di un’emergenza, altre tipiche del nostro sistema a volte troppo regionalizzato. Noi abbiamo provato a usare oculatamente quel poco che avevamo e a collaborare tra direzioni per darci una mano e fare sistema.
L’ultima criticità è l’eccesso di conflittualità, siamo un Paese in cui accusare sembra a volte più importante di risolvere. Nessuno vuol togliere nulla a chi chiede legittimamente un risarcimento, ma questa conflittualità è stata un elemento negativo. Sembra che la responsabilità di non aver agito tempestivamente sia tutta aziendale, ma in realtà eravamo di fronte ad un problema che ci sovrastava, in un contesto nel quale si creavano accelerazioni continue e problemi che solo la capacità decisionale del management ha saputo risolvere».
Molti operatori sanitari hanno perso la vita combattendo il virus e molti focolai si sono originati negli ospedali. Cosa non ha funzionato?
«Aver perso la parte più nobile delle nostre aziende è un lutto che non potremo mai dimenticare. Ricordiamoci anche che alcuni di noi non hanno potuto tirarsi indietro, dico di noi perché tra i tanti operatori infettati ci sono anche direttori sanitari. Non è possibile per noi stare lontani dalla mischia e questo dà il senso della straordinarietà del contributo che si chiede ai sanitari. Quando il virus ha attaccato le prime regioni italiane eravamo tutti impreparati: i contagiati si sono riversati negli ospedali o negli studi dei medici di medicina generale, che si sono trovati coinvolti, e sono stati eroici. Credo che il coinvolgimento iniziale in una condizione nella quale non sapevamo ancora abbastanza del virus e l’immensa quantità di pazienti che si sono riversati sugli ospedali, la mancanza di strumenti di telemedicina che rendevano sempre necessario il contatto con il paziente, possono essere state concause di questa grande tragedia».
Quali sono invece le best practice che sicuramente accompagneranno la prossima fase?
«Innanzitutto direi la telemedicina: abbiamo finalmente superato dei complessi atavici, tra cui la privacy, che hanno molto rallentato questi sistemi che da 20 anni costruiamo nelle aziende. La possibilità della trasmissione delle immagini ha una potenzialità enorme, anche per la formazione dei medici di medicina generale. Il secondo elemento sul quale richiamerei l’attenzione è l’esperienza straordinaria di efficientamento. Abbiamo comprato nuovi macchinari e assunto nuove persone a una velocità inconsueta, che forse mi preoccupa un po’ dal punto di vista delle responsabilità che ci siamo assunti, l’innovazione ci ha travolto. Abbiamo imparato che tutto si può fare più in fretta e che si può scegliere bene anche con velocità. Abbiamo imparato a lavorare insieme, tra ospedale e territorio. Abbiamo imparato ad archiviare pratiche obsolete, come gli eccessi di consumi. Questa capacità di utilizzare meno prestazioni diagnostiche spero possa insegnare a non usarle più come se si trattasse di una risorsa infinita».
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