La ricercatrice dell’università Cattolica: «Non si tratta di tecniche nuove, piuttosto è il loro perfezionamento a poter essere considerato innovativo. Presto utilizzeremo l’enteroscopia a spirale motorizzata, che offre una diagnosi più veloce ed un trattamento più efficace»
Per anni considerata un terra sconosciuta, difficile da esplorare fuori da una sala operatoria, l’intestino tenue oggi è invece ispezionabile come qualsiasi altro tratto dell’apparato gastrointestinale. I suoi sette metri, infatti, non sono raggiungibili né dall’alto con la gastroscopia, né dal basso, attraverso la colonscopia. Tuttavia, possono essere osservati grazie ad altre due metodiche: la videocapsula e l’enteroscopia.
«Non si tratta di tecniche nuove – spiega la dottoressa Maria Elena Riccioni, ricercatore confermato all’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma -. È piuttosto il loro perfezionamento a poter essere considerato innovativo. L’ultima innovazione, ad esempio, è l’enteroscopia a spirale motorizzata che, proprio grazie al motore in dotazione, permetterà di eseguire l’esame in maniera più rapida e più efficace dal punto di vista terapeutico. La stessa tecnica, presto disponibile, potrà essere utilizzata anche per l’esplorazione delle altre parti dell’intestino, traendone analoghi benefici».
«Nel 2001 è stato possibile ispezionare, per la prima volta, il tratto dell’intestino tenue attraverso la videocapsula – racconta Riccioni -. L’esame, con finalità esclusivamente diagnostiche, prevede l’ingestione della videocapsula e il posizionamento sull’addome di elettrodi collegati ad un registratore. In questo modo, sarà possibile visualizzare tutte le immagini riprese dalla videocapsula durante il suo transito all’interno dell’apparato gastrointestinale dell’individuo che l’ha ingerita».
Di recente è stata dotata anche di intelligenza artificiale: all’unità operativa di Endoscopia Digestiva e Gastroenterologia dell’ospedale Fondazione Poliambulanza di Brescia, infatti, è utilizzata una videocapsula di ultima generazione in grado di sollevare il medico dall’incarico di visionare l’intero filmato prodotto, per cercare eventuali lesioni. Sarà un software di intelligenza artificiale a farlo al suo posto.
L’enteroscopia, a differenza della videocapsula, non ha solo finalità diagnostiche: offre anche la possibilità di effettuare una serie di trattamenti endoscopici. Questo particolare esame, l’enteroscopia assistita da device o DAE, è effettuato in pochi centri d’Italia, tra cui il Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. «L’enteroscopio – commenta Riccioni – è utilizzato da una quindicina di anni e, a differenza dell’endoscopio, è uno strumento più lungo (circa 2m) e più flessibile». L’enteroscopia viene effettuata con assistenza anestesiologica, per la sedazione profonda e radiologica, per controllare la progressione dell’endoscopio.
Durante l’esame, a parte individuare la presenza di polipi, è possibile rimuoverli ed effettuare biopsie. «Nei pazienti con malattia di Crohn, l’enteroscopia, oltre a confermare la diagnosi nei casi dubbi – spiega la ricercatrice -, può essere effettuata per dilatare con appositi ‘palloncini’ le stenosi, cioè i restringimenti di tratti dell’intestino che in questi pazienti possono svilupparsi spontaneamente (stenosi primitive) o dopo un intervento chirurgico».
L’enteroscopia permette anche di individuare la sede di partenza delle cosiddette “emorragie oscure” che, una volta su 20 (il 5% di quelle che arrivano in pronto soccorso), originano proprio dall’intestino tenue. Questi sanguinamenti sono causati soprattutto da tumori primitivi (carcinoidi, GIST e tumori neuroendocrini) o metastasi (ad esempio da melanoma, rene, polmone) o ancora, sindromi polipoidi ereditarie (come la sindrome di Peutz-Jeghers).
Il padre dell’enteroscopia è il giapponese Yamamoto che l’ha messa a punto all’inizio di questo secolo. In Europa questa procedura è molto praticata in Germania, tanto che la stessa dottoressa Riccioni ha imparato la tecnica a Wiesbaden. Maria Elena Riccioni, inoltre, è coautrice delle linee guida della Società Europea di Endoscopia Gastrointestinale (ESGE) sull’enteroscopia, pubblicate nel 2018 sulla rivista Endoscopy.
Come molte procedure mediche, anche l’enteroscopia non è scevra da rischi. «Secondo la letteratura degli ultimi 20 anni – spiega Riccioni – il rischio dell’enteroscopia diagnostica si aggira intorno allo 0,1%. Le procedure più complesse sono quelle legate alle polipectomie. L’enteroscopia, infatti, è consigliata soprattutto a pazienti affetti da sindromi di poliposi familiare o da particolari patologie intestinali croniche».
Fino a pochi anni fa, le persone che sviluppavano polipi nel tratto dell’intestino tenue erano spesso sottoposte a resezioni del tratto intestinale compromesso, rischiando, nel tempo, di arrivare ad un intestino corto. Oggi, l’enteroscopia permette di evitarlo. «I rischi di perforazione e sanguinamento sono direttamente collegati al diametro del polipo: più questo è grande, maggiori saranno i rischi – sottolinea la ricercatrice -. Ma in queste situazioni, l’enteroscopia rappresenta comunque il minore dei mali, evitando – conclude Riccione – di sottoporre il paziente ad un vero e proprio intervento chirurgico».
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