«Noi abbiamo la necessità di rendere le nostre lauree più professionalizzanti. Le regole che attualmente governano i corsi di Psicologia sono inadeguate rispetto alle normative e al mandato sociale della professione»
«Abbiamo la necessità di rendere le nostre lauree più professionalizzanti. Le regole che attualmente governano i corsi di Psicologia sono inadeguate rispetto alle normative e al mandato sociale della professione». Così David Lazzari, presidente nazionale dell’Ordine degli Psicologi, spiega la situazione attuale relativa alle lauree abilitanti.
«Il CNOP farà una valutazione attraverso i suoi organismi, il Tavolo Tecnico con l’Università e il Consiglio nazionale. Le intenzioni del Governo sono di carattere generale e riguardano molte professioni, a partire da quelle che si occupano di salute. Non è dunque una norma specifica per gli Psicologi. Però l’impatto sulla formazione psicologica deve essere attentamente valutato, questa norma si innesta su una più ampia necessità di revisione dell’ordinamento degli studi psicologici».
«Noi abbiamo la necessità di rendere le nostre lauree più professionalizzanti. Le regole che attualmente governano i corsi di Psicologia sono inadeguate rispetto alle normative e al mandato sociale della professione. Le realtà virtuose e più attrezzate riescono comunque a creare situazioni di eccellenza, ma lo standard più diffuso è più tarato su una laurea di “cultura psicologica” che sulla formazione di un professionista, come è chi si iscrive all’Ordine con la qualifica di Psicologo».
«Però i numeri non dicono questo. La quasi totalità dei laureati finisce per iscriversi all’Ordine. Questo vuol dire che questa laurea viene utilizzata come “professionalizzante”, visto che non può bastare l’anno di tirocinio o l’esame di stato per questa finalità. Ed infatti la maggioranza dei laureati continua con una formazione specialistica per acquisire competenze, soprattutto in Psicoterapia. Alla fine del percorso sono almeno 10 anni. Un grande onere che non è ripagato dalla realtà del mercato del lavoro».
«Molto difficile. In parte perché la professione sinora non è stata adeguatamente valorizzata dalle Istituzioni. La pandemia ha mostrato con chiarezza la mancanza di una rete psicologica nel pubblico. Però la moltiplicazione dell’offerta formativa, slegata dal mercato del lavoro e con numeri troppo elevati, che non consentono un concreto impegno pratico oltre che teorico, ha portato ad un numero di Psicologi che non ha eguali a livello internazionale. Questo conduce a situazioni di sotto-utilizzazione e demansionamento che sono inaccettabili, uno sperpero di competenze che penalizza il Paese, oltre che le persone».
«Storicamente siamo stati penalizzati da un gap tra universitari e professionisti, che ha finito con il penalizzare tutti. Tra gli accademici c’è chi pensa che i problemi della professione non li riguardino, ma è una posizione anacronistica che mi sembra però di assoluta minoranza. Oggi c’è bisogno di una assunzione collettiva di responsabilità, anche per far capire al Governo le necessità e le specificità della Psicologia. Nel recente incontro dell’Associazione Italiana di Psicologia, la società scientifica che raccoglie gran parte degli accademici, ho sentito una consapevolezza diffusa in questa direzione».
«Io credo che si debba aprire un confronto sia sulle richieste al Governo sia sulle cose che possiamo fare noi, come ad esempio mandare un messaggio ai giovani che vogliono fare studi psicologici: devono conoscere la realtà per decidere bene. Proprio oggi ho scritto al vicepresidente della nostra Cassa, l’Enpap, in risposta ad un suo articolo su queste tematiche, auspicando un confronto per definire posizioni congiunte. Abbiamo bisogno di chiarezza, onestà intellettuale ed unità per affrontare al meglio questi nodi, che sono fondamentali in una fase in cui la professione psicologica sta assumendo un ruolo sociale ed una visibilità crescente».
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