Secondo Giovanni Apolone (Direttore Scientifico della Fondazione IRCCS Istituto dei Tumori di Milano) per vincere la sfida occorre superare l’interpretazione restrittiva della norma europea sul GDPR
In ambito sanitario l’Europa guarda avanti e pensa ad un regolamento sullo spazio europeo dei dati sanitari (EHDS), che, nel rispetto dei diritti fondamentali, permetterà al cittadino di controllare e utilizzare i propri dati a livello europeo, mentre sul fronte dei diritti promuoverà un mercato unico digitale in campo sanitario. Un traguardo che richiede un grosso impegno degli stati membri affinché i dati siano da tutti accessibili, reperibili, interoperabili e riutilizzabili in formato elettronico.
Da questo punto di vista gli Stati Ue avranno due obiettivi: far sì che i documenti sanitari come anamnesi, esami di laboratorio, referti siano rilasciati ed accettati in un formato comune europeo, mentre per favorire la ricerca, l’innovazione e la sanità pubblica, le istituzioni e le imprese dovranno avere accesso a grandi quantità di dati e per farlo dovranno ottenere l’autorizzazione di un organismo responsabile da istituire in ciascun Stato che vigilerà sulla finalità dell’utilizzo dei dati che dovranno essere utilizzati in ambienti chiusi e sicuri senza possibilità di identificare il paziente.
Alla luce di queste linee di indirizzo europee che impongono a cascata dei cambiamenti nei singoli paesi è opportuno domandarsi se la sanità italiana sia pronta al grande passo, verso una nuova era sempre più digitale. Per Giovanni Apolone, Direttore Scientifico della Fondazione IRCCS Istituto dei Tumori di Milano oltre che coordinatore Nazionale degli IRCCS Pubblici e Presidente Eletto di OECI, Organization of the European Cancer Institutes si tratta di una sfida difficile ma al tempo stesso una grande opportunità: «L’obiettivo è una medicina di precisione, sempre più personalizzata alla quale bisogna arrivare attraverso una maggiore integrazione dei dati e con una raccolta capillare di informazioni nella pratica clinica da conservare e utilizzare nella ricerca».
I dati raccolti provengono formalmente da due ambienti: il percorso diagnostico terapeutico e la ricerca e rappresentano una mole di informazioni che devono essere raccolti in database sempre più complessi «La produzione, la conservazione, l’analisi e l’utilizzo dei dati sono gli step principali in cui ci confrontiamo nei due ambiti: clinico e di ricerca – prosegue il direttore Scientifico dell’Istituto dei Tumori – fino ad arrivare a quelle che sono le sfide attuali che si riassumono in due termini: big date e intelligenza artificiale». Ma perché questa partita possa essere giocata e vinta occorre superare degli ostacoli normativi sull’interpretazione del GDPR (General Data Protection Regulation) che interessano in particolar modo l’Italia.
«Per rendere più efficiente la nostra attività è necessario non solo raccogliere, conservare e analizzare i dati, ma anche, nel tempo, riutilizzarli – prosegue Apolone – ai fini clinici e della ricerca. Invece per una interpretazione restrittiva della norma europea sul GDPR da parte dell’Italia oggi ci troviamo nell’impossibilità di utilizzare i dati clinici ai fini della ricerca in assenza di un consenso informato completo esaustivo, e anche di riutilizzarli in un secondo momento, integrare dati da fonti diverse o fare data sharing in studi internazionali».
L’attuale interpretazione restrittiva delle norme vigenti di fatto limita le potenzialità di ricerca in Italia e una efficiente partecipazione a progetti europei, per quanto, in realtà, una legge europea (110 bis) nel comma 4 riconosca questa possibilità, ma solo ai 53 IRCCS, Istituti di cura a carattere scientifico che sono riconosciuti dal Ministero della Salute. «Questo è possibile solo nell’ambito della propria area di riconoscimento e secondo un piano di ricerca istituzionale che ha valore tre anni però – puntualizza il direttore Scientifico dell’Istituto dei tumori di Milano -, sarebbe invece auspicabile un intervento interpretativo dell’Autorità garante che permetta un utilizzo pieno dei dati raccolti a fine clinico sanitario, la loro integrazione e condivisione tra IRCCS. Questo permetterebbe di ridurre i costi della ricerca perché non sarebbero necessarie nuove raccolte dati, ma sarebbe sufficiente condurre nuovi studi sui dati già esistenti senza per altro ledere il diritto dei pazienti di fornire il consenso al trattamento dei propri dati nel contesto delle attività di ricerca dell’IRCCS».
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