Il Presidente della Società Italiana Chirurghi Ortopedici dell’Ospedalità Privata ai microfoni di Sanità Informazione: «Molti colleghi chiamati a coprire altre mansioni. È dura rimettersi a leggere i libri dell’università per dare supporto ai pazienti»
L’ortopedia, così come le altre branche della medicina, è stata duramente colpita dall’arrivo del Covid-19. Ma se la situazione peggiore è ormai alle spalle, ad un anno di distanza dall’inizio della pandemia si è imparato a convivere con la situazione che stiamo vivendo. Sanità Informazione ne ha parlato con Andrea Grasso, Presidente Sicoop (Società Italiana Chirurghi Ortopedici dell’Ospedalità Privata).
«L’ortopedia è cambiata molto, soprattutto durante il primo lockdown. È stato un momento molto duro, soprattutto per i pazienti. Nella maggior parte delle Regioni, se non in tutte, sono stati bloccati i ricoveri in elezione. Ciò significa che potevano essere operati solo i pazienti che avevano un trauma, una frattura o patologie che non potevano essere differite. Piano piano l’elezione è stata reintrodotta. Successivamente c’è stata una fase in cui sembrava che tutto si fosse stabilizzato. Poi sono arrivate la seconda e la terza ondata. In questa fase non c’è stato un fermo così rigido come tra marzo e aprile. Abbiamo cercato di convivere con la situazione. Faccio l’esempio del Lazio, Regione in cui mi trovo, in cui è stato trovato un accordo per cui l’attività ortopedica in elezione nel pubblico è stata spostata presso strutture private o private accreditate. Si è cercato insomma di salvaguardare il paziente e di evitare di farlo entrare in ospedale, ovvero in un luogo più soggetto a rischi. In ogni caso, ora stiamo andando avanti. Stiamo continuando ad operare. Quel che logicamente cambia è l’atteggiamento del paziente. Ciò che però ci ha meravigliato durante il primo lockdown è la quantità di persone che continuavano a venire da noi per farsi visitare o perché disposti a farsi operare. Questo è stato molto importante. Sicuramente è stato merito anche dell’organizzazione delle strutture che si sono adeguate e hanno creato protocolli di sicurezza, grazie ai quali le persone si sentivano discretamente sicure».
«Sì, anche se devo dire che è questa cosa è accaduta maggiormente nelle aree più colpite, in particolare nella prima fase in cui, inevitabilmente, c’era molta impreparazione. So di tantissimi colleghi che in quella fase sono stati chiamati a dare una mano in aree che non erano di loro competenza, come la medicina interna, il reparto pneumologia e via dicendo. È stata molto dura».
«Sì, ma gli aspetti in questo caso sono due: c’è il discorso medico legale del rischio e un discorso personale. Il medico vuole aiutare ed essere utile alle persone che si affidano a lui. E come lo si diventa? Studiando e sapendo sempre cosa va fatto nell’interesse del paziente. Quando un medico si trova spiazzato e deve rispolverare i libri dell’università, questo senza dubbio crea delle difficoltà. Allo stesso tempo però è in situazioni del genere che viene fuori l’entusiasmo e la voglia di essere ancora più utili. Ci si fa in quattro per fare tutto».
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