Appuntamento a Roma il 17 novembre alle 12.30 in piazza Santi Apostoli. I motivi della protesta, Manca (Simeu): «Fermare la fuga di medici e specializzandi, ottenere il riconoscimento di lavoro usurante e maggiore protezione contro le aggressioni»
Nessuno grido, né slogan. Solo silenzio. Il flash mob di medici e infermieri dell’emergenza-urgenza, che si terrà a Roma in piazza Santi Apostoli il 17 novembre, sarà una protesta silenziosa, intervallata solo da qualche simbolico colpo di sirena. «Vogliamo riprodurre lo stesso “assordante silenzio” che le Istituzioni, nonostante le nostre ripetute richieste, continuano a riservarci» dice Salvatore Manca, presidente della Simeu, Società Italiana della medicina di emergenza-urgenza, promotrice della mobilitazione.
Nei giorni scorsi, dopo l’annuncio della protesta, il Governo ha rotto questo silenzio. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato lo stanziamento di 90 milioni di euro di indennità per medici, infermieri e altri operatori sanitari che lavorano in pronto soccorso. «Che ci faccia piacere ricevere un indennizzo è innegabile – sottolinea Manca – . È un riconoscimento alla gravosità del nostro lavoro. Ma le risposte che attendiamo non sono economiche. Almeno, non solo. Per questo, il flash mob non sarà revocato».
Fermare la fuga di medici e giovani specializzandi, ottenere il riconoscimento di lavoro usurante e ricevere maggiore protezione contro le aggressioni sono tra le principali richieste avanzate dalla Simeu. «Soffriamo di una carenza d’organico non più tollerabile – continua il presidente delle Società scientifica – . Mancano all’appello 4 mila medici e 10 mila infermieri. Sempre più spesso i nostri medici si formano in Italia e vanno a lavorare all’estero, dove le condizioni di lavoro e il riconoscimento economico sono di gran lunga migliori».
I numeri della carenza d’organico sembrano essere destinati ad un ulteriore aumento: «Durante i periodi più critici della pandemia le condizioni di lavoro nei nostri reparti sono peggiorate a tal punto da aver spinto molti medici e professionisti sanitari a trasferirsi altrove. E se la situazione non dovesse migliorare, in maniera piuttosto celere, sarebbe probabile che altri colleghi seguiranno la stessa strada», avverte lo specialista.
Intanto il carico di lavoro è tornato ad essere ai livelli pre-pandemia: «Sono circa 24 milioni i pazienti che, ogni anno, si rivolgono ai pronto soccorso italiani. E non è escluso – aggiunge Manca – che questa cifra possa ancora aumentare a causa della riacutizzazione delle patologie di molti malati cronici, vittime degli enormi ritardi di diagnosi e trattamento accumulati durante la pandemia». Troppo spesso, i pronto soccorso diventano luoghi di pre-ricovero, dove i pazienti aspettano (anche per giorni) che si liberi un posto letto nel reparto di degenza più adeguato alle loro condizioni.
Questo non si traduce solo in un ulteriore carico di lavoro per i sanitari, ma pure in un trattamento che può risultare poco appropriato alle esigenze dei pazienti. «Scendiamo in piazza anche per i cittadini, affinché gli siano garantire le cure più adeguate. Noi siamo sempre dalla parte dei nostri pazienti e delle loro famiglie, ma non possiamo pagare le conseguenze in prima persona del malfunzionamento dell’intera struttura sanitaria», dice Manca. I medici e i professionisti sanitari che operano all’interno dei pronto soccorso, infatti, sono tra le principali vittime di violenza verbale e fisica.
Una situazione di innegabile disagio che condiziona anche le scelte degli specializzandi. «Quest’anno i posti a disposizione per la scuola di specialità in Medicina dell’Emergenza-Urgenza erano 1.187. Quattrocentottanta sono rimasti vacanti, circa il 40% del totale. Percentuali che testimoniano un disamore verso questa professione che impone turni di 12 ore, due notti di lavoro alla settimana, un solo weekend libero al mese. Il tempo che resta, da dedicare alla famiglia ed ai propri interessi è sempre troppo poco. E – conclude Manca – non si può vivere di solo lavoro».
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