La pandemia ha evidenziato l’ovvio: la branca meno valorizzata è quella di cui avremo sempre più bisogno. Tra riforme sbandierate e finanziamenti arenati c’è necessità di rinnovare, per i mmg ma soprattutto per il bene della comunità
Sono stati il capro espiatorio ideale, i medici di famiglia italiani, durante le fasi più dure della pandemia. La medicina territoriale è stata la “grande assente” di cui ci si è accorti a battaglia già iniziata, rea di non aver saputo assolvere ai suoi compiti di assistenza ai reali (e nuovi) bisogni della popolazione.
Tacciati di assenteismo, i medici di base, nonostante tra le loro file ne morissero a centinaia. Accusati di essersi trasformati in burocrati, da quegli stessi ingranaggi istituzionali che nel corso degli anni gli hanno via via addossato una tale mole di adempimenti che il tempo da dedicare alla cura e all’ascolto degli assistiti lo si trovava coi salti mortali. Salvo poi, dopo decenni di mancati investimenti e valorizzazione del settore, rendersi conto che in fondo, una medicina del territorio che funziona è buona parte di ciò che serve davvero al settore sanità, anche e soprattutto in contesti di emergenza, dove la vetta di eccellenza delle singole strutture può ben poco senza una rete capillare e strutturata di assistenza territoriale.
Ciò nonostante, i medici di famiglia sono stati reiteratamente lasciati indietro, sia per quanto riguarda la distribuzione dei DPI, sia nel coinvolgimento sui protocolli per la cura del Covid sul territorio, sia sugli adeguamenti contrattuali per le nuove prerogative e competenze che pure venivano costantemente richieste, tra cui l’aumento del personale infermieristico e amministrativo negli studi. Una riforma del settore, insomma, che assomiglia alla Campagna di Russia, con un esercito mandato a combattere con scarpe di cartone.
Una delle ultime istanze di riforma per la medicina di prossimità in epoca pre-Covid risale alla fine del 2019, con lo stanziamento, in legge di bilancio 2020, di 235 milioni di euro per rafforzare le capacità degli studi tramite l’acquisto di apparecchiature per la diagnostica di primo livello: ecografi, holter, spirometri, dermoscan, e strumenti per la telemedicina. Ma il tutto, già allora, finì in una bolla di sapone: le Regioni non presentarono i relativi piani per accedere ai finanziamenti. Così, con i fondi ancora intatti, esplode l’emergenza Covid, e si decide di accelerare sia sui tamponi antigenici negli studi sia sulla diagnostica di primo livello, rimasta al palo.
La strategia era che l’ex commissario Arcuri avrebbe avocato a sé la gara per l’acquisto delle attrezzature per poi distribuirle alle Regioni. Ma anche stavolta il progetto si arena. Il testo di legge è tuttavia ancora in vigore, e quindi in teoria il compito di procedere passa al nuovo commissario Figliuolo. Peccato che, nel frattempo, aver potuto contare su queste attrezzature avrebbe permesso ai medici di famiglia di giocare un ruolo molto più incisivo nella gestione dell’emergenza. Un esempio? L’ecografo si può collegare a uno smartphone, consentendo al medico di recarsi al domicilio del paziente Covid ed effettuare una ecografia ai polmoni in collegamento con lo specialista.
Un altro aspetto della questione, noto già in epoca pre-Covid ma che la pandemia ha posto in una nuova luce, è l’enorme potenziale della medicina generale nell’indirizzare correttamente la popolazione, generando consenso e affidamento in materia di salute pubblica. Sono molti gli studi condotti che attestano una grande fiducia dei cittadini nei confronti del medico di famiglia, tra cui un’indagine del 2018 condotta del Censis, secondo la quale l’88% degli italiani si fida pienamente di questa figura, percentuale che supera il 90% negli over 65.
Il medico di famiglia è l’unica istituzione sanitaria che, per antonomasia, può spogliarsi da quella veste fredda e impersonale che caratterizza ormai troppo spesso il rapporto medico-paziente, e sa diventare confidente, elargire un consiglio umano oltre che clinico, agire come depositario di scienza ma anche di buon senso.
Al tempo stesso, il medico di famiglia è “altro” rispetto alle istituzioni governative cui è stato affidato il compito di informare la popolazione nelle varie fasi delle pandemia. In ottica comunicativa, un mix esplosivo, un espediente che con tutta probabilità, adoperato sin dall’inizio dell’emergenza, avrebbe contribuito ad unificare l’informazione evitandone l’eccessiva frammentazione, il paternalismo, talvolta l’incoerenza di cui è stata spesso caratterizzata, evitando il sentimento di sfiducia e smarrimento della popolazione che ne è poi derivato. Nel prossimo futuro, che sarà caratterizzato sempre più dalle cronicità da un lato e dall’altro da crescenti esigenze di prevenzione a tutto tondo, dagli screening alle campagne vaccinali, non si potrà non tener conto di questo dato.
Ne fa un esempio Silvestro Scotti, segretario generale Fimmg, che ricorda come il Ministero della Salute consigliasse inizialmente a chi aveva sintomi di chiamare il 118, bypassando il medico di famiglia, e creando inutili focolai in ospedale. «La storia è cambiata – spiega – quando abbiamo segnalato l’esigenza di un triage telefonico tra medico e paziente prima che lo stesso si recasse nel suo studio o in ospedale».
«Tutta l’attività che noi stiamo svolgendo da un anno a questa parte viene sottovalutata – aggiunge – abbiamo coperto le deficienze dei dipartimenti di produzione, raccolto tutte le informazioni di gestione che vanno dalla certificazione alla spiegazione dell’isolamento fiduciario al paziente senza che questo fosse riconosciuto. Anche con le vaccinazioni, il paziente chi chiama prima e dopo aver fatto il vaccino? Il medico di famiglia».
Alla luce dei fatti, è evidente che mantenere la centralità sanitaria come prerogativa ospedaliera significherebbe operare una discrasia tra l’offerta di salute e l’effettiva domanda della popolazione, oltre ad essere estremamente oneroso e, in taluni frangenti, controproducente. Ma per i medici di famiglia tante sono le domande aperte, poche le risposte
«Il punto è: c’è davvero la volontà di dare un ruolo centrale alla medicina territoriale – si chiede Domenico Crisarà, vicesegretario nazionale FIMMG – restituendogli di fatto ciò che è già suo appannaggio nella percezione del cittadino? Qual è la progettualità, al di là di ciò che si sbandiera? E in questa eventuale progettualità, il medico di famiglia sarà ancora convenzionato o diventerà dipendente? L’obiettivo è, nei fatti, avere un professionista che in piena autonomia professionale e intellettuale faccia davvero gli interessi del cittadino? A me sembra che – osserva – nei fatti, il sistema remi contro qualunque riforma concreta in tal senso. Eppure, si è visto che i sistemi sanitari regionali hanno retto l’onda d’urto del Covid in maniera direttamente proporzionale al livello di organizzazione e capillarità della medicina del territorio. Laddove la medicina territoriale è stata smantellata – conclude – è stata una catastrofe».
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