L’avvocato Francesco Cecconi dello Studio Legale FCA parla di «intollerabile disparità di trattamento tra gli operatori sanitari dipendenti e i libero professionisti»
Qual è la situazione odierna a distanza di oltre un anno dall’introduzione dell’art. 42 del D.L. n. 18, del 17 marzo 2020 (cosiddetto “Cura Italia”), che ha equiparato l’infezione da Covid-19 ad “infortunio” sul lavoro? In caso di infezione da SARS-CoV-2 contratta durante l’attività lavorativa, gli operatori sanitari sono coperti dall’assicurazione? «Ad oggi – spiega l’Avv. Francesco Cecconi dello Studio Legale FCA di Firenze e partner di Consulcesi&Partners – sussiste una intollerabile disparità di trattamento tra gli operatori sanitari che lavorano come dipendenti in una struttura pubblica o privata e quelli che invece svolgono la medesima attività come libero professionisti».
Solo ai primi infatti viene «riconosciuta la copertura assicurativa dell’Inail in caso di infezione da Covid-19 contratta durante l’attività lavorativa», mentre ai secondi, titolari di polizze assicurative private che coprono il rischio “infortunio”, «viene di norma negato tale indennizzo sul presupposto che l’infezione da Covid-19 non rientrerebbe nel concetto di “infortunio” ma in quello di “malattia”».
Esiste una grande differenza tra assicurazione Inail per gli infortuni sul lavoro e malattie professionali e polizze infortuni di diritto privato: «La tutela Inail – spiega l’avvocato – nasce per garantire il lavoratore dalle disgrazie accidentali pur in assenza di una “colpa” del datore di lavoro, mentre i contratti di Polizza Infortuni costituiscono il frutto della autonomia privata e possono pertanto prevedere clausole di esclusione della copertura o di limitazione alla indennizzabilità».
Detto questo, però, «la qualificazione di un evento come un “infortunio”, anziché come “malattia”, richiede il medesimo tipo di accertamento, sia in ambito di tutela Inail che in ambito di polizze infortuni private»: le definizioni di “infortunio” e di “malattia” presenti nelle polizze private sono infatti «perfettamente sovrapponibili a quelle previste dalla tutela Inail, incentrandosi entrambe sul concetto di “causa violenta”».
Ma l’infezione da Covid-19 è riconducibile alla “causa violenta”? «Non è questa la sede per affrontare l’argomento in modo approfondito – continua l’avvocato Cecconi – ma al riguardo posso dire che, prima del verificarsi di questa drammatica pandemia, la letteratura medico-giuridica, sull’argomento, era pressoché univoca nel ritenere l’indennizzabilità delle infezioni virulente come “infortunio”. In particolare, si riteneva che le infezioni caratterizzate da virulenza potessero essere escluse dalla indennizzabilità solo in presenza di precise clausole di esclusione, ma non perché non rientrassero nel concetto di evento “fortuito”, “violento” ed “esterno”».
Attualmente invece si registrano pareri divergenti nella comunità scientifica medico-legale, che non esprime un’opinione unanime. Per quale motivo? «Probabilmente – risponde l’avvocato – ciò è conseguenza dell’obiettivo rischio di veder proliferare le richieste di indennizzo connesse alla pandemia da Covid-19».
In caso di fallimento del tentativo di conciliazione, «nel caso di specie, reso obbligatorio all’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del 2010 (rientrante la vertenza avente ad oggetto i contratti di assicurazione, tra le ipotesi di applicazione dell’istituto di mediazione obbligatoria)», l’unica soluzione che sembra percorribile per vedere tutelati i diritti degli assicurati ai quali è stato negato l’indennizzo è rappresentata «da quella giudiziale, nel corso della quale faranno da padrone le norme del Codice Civile in tema di interpretazione del contratto e quindi la giurisprudenza che negli anni si è pronunciata al riguardo in tema di assicurazione degli infortuni».
Allo stato delle cose, se si dovesse far riferimento a questa giurisprudenza (in mancanza di precedenti in tema di Covid-19), l’avvocato spiega che «si dovrà concludere nel senso di considerare come “causa violenta” anche un evento microbico o virale e quindi ritenere che anche un’infezione acuta e virulenta che provenga dall’esterno soddisfi la definizione di infortunio, con la conseguenza che anche l’infezione da Covid-19, presentando dette caratteristiche, verosimilmente dovrà essere considerata come un “infortunio”».
Ciò detto, e ai fini della indennizzabilità dell’infortunio, sarà fondamentale «approfondire caso per caso, e valutare la portata delle varie condizioni che caratterizzano, nel caso concreto, ogni singola polizza che può prevedere la presenza di eventuali clausole di esclusione». L’avvocato Cecconi si riferisce, ad esempio, a quelle che «prevedono la indennizzabilità delle sole conseguenze “dirette ed esclusive”, ovvero di quelle che escludono gli infortuni derivanti da “contagio”, ed ancora di quelle che escludono dalla indennizzabilità le infezioni derivanti da germi infettivi che non si siano introdotti nell’organismo attraverso una lesione esterna traumatica (come accade per il coronavirus, il cui contagio avviene solitamente attraverso le vie aeree). Non dimentichiamoci, inoltre – continua l’avvocato –, che in presenza di clausole contrattuali caratterizzate da dubbio o vaghezza interpretativa, l’art. 1370 cc. prevede che debbano essere interpretate nel modo più favorevole all’assicurato».
Infine, una volta ammessa la natura di “infortunio” e valutata la portata di eventuali clausole di esclusione, «dovrà essere attentamente accertato, da parte del medico legale, che l’infezione da Covid-19 sia stata la causa non solo necessaria ma anche sufficiente alla produzione del danno (che sia un’invalidità permanente o temporanea o anche la morte dell’assicurato), a fronte di eventuali preesistenze o co-morbilità – conclude l’esperto – che potrebbero ridurre o, addirittura, escludere la corresponsione dell’indennizzo».
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