Su Sanità Informazione la storia di un gruppo di operatori sanitari che, per coprire i buchi lasciati da chi non ha voluto vaccinarsi, si è ritrovato a svolgere mansioni per cui non era preparato
Mettiamoci nei panni di un giovane infermiere di 25 anni che, dalla sera alla mattina, senza alcun preavviso, viene spostato di reparto. Guardiamolo vagare da solo tra macchinari che non sa usare (perché non è tenuto a saperlo fare), farmaci e preparazioni che magari ha solo sentito nominare e linee guida che non conosce (lui si occupa di altre cose). Mettiamo che venga spostato in un reparto molto delicato e complesso come cardiochirurgia. A questo quadro aggiungiamoci pure che gli venga riservato il turno di notte. Ecco, immaginiamoci tutto questo ed entriamo con la mente nel suo camice. Come potrebbe sentirsi? E come potrebbe sentirsi un eventuale paziente che rischia la vita e che, al di sopra della mascherina, incrocia due occhi inesperti e impauriti? Cosa si prova?
In entrambi i casi, la risposta è banale: paura. Paura per l’infermiere di fare un danno ad un paziente e di doverne rispondere non solo psicologicamente e moralmente ma anche legalmente. Paura per il paziente che, già preoccupato per le sue precarie condizioni di salute, alla prima – e del tutto comprensibile – titubanza del suo presunto salvatore potrebbe farsi prendere dal panico. Meglio davvero, a questo punto, essere sedati dall’inizio alla fine e non accorgersi di nulla.
In epoca Covid, questo tipo di scenario non è affatto così lontano dalla realtà. È successo davvero, e chissà quante volte. E non parliamo tanto della fase emergenziale più acuta, quella in cui un virus nuovo di zecca e di cui ancora non si sapeva nulla ha devastato interi reparti, procedure, certezze accumulate in anni e anni di esperienza, uccidendo centinaia di operatori sanitari e dando il via ad una fase emergenziale senza precedenti che finirà solo molti mesi dopo.
Parliamo degli ultimi tempi, quelli resi meno pesanti dall’arrivo dei vaccini che hanno messo in sicurezza in primis operatori sanitari e persone fragili. Quelli in cui le terapie intensive non scoppiano, si muore sì ma molto meno di prima e chi si infetta è quasi esclusivamente chi non è vaccinato. Ed è proprio a causa di operatori sanitari non vaccinati che si vengono a creare (e se ne sono create tante) situazioni come quelle del giovane infermiere di 25 anni.
Di fronte ad una cronica carenza di operatori sanitari nel nostro Servizio sanitario, la situazione è peggiorata quando è stato imposto loro l’obbligo vaccinale e alcuni di questi (non molti, ma sempre troppi) hanno preferito la sospensione all’ago. E se sei un infermiere, un medico, un OSS oppure un dirigente sanitario, e da un giorno all’altro ti vedi privato di importante forza lavoro, devi trovare il modo di tamponare la mancanza e fare il possibile per fornire il servizio che ti viene richiesto. E la strada che a volte viene scelta è quella di spostare come pedine i professionisti ancora di ruolo.
«In quel periodo c’era una grande confusione – conferma a Sanità Informazione un’infermiera che ha vissuto questa situazione sulla sua pelle, insieme ai suoi colleghi –. Fatto sta che con la sospensione dei colleghi no vax ci siamo trovati da un giorno all’altro con alcuni servizi scoperti. Quel giorno stesso la direzione ha cominciato a spostarci in reparti che nulla avevano a che fare con le nostre specializzazioni e le nostre competenze».
Parliamo, come nel caso dell’infermiere di prima, di ragazzi molto giovani, magari assunti da neanche un anno. E come quel giovane infermiere c’è chi viene spedito nel reparto di ginecologia, chi in area medica, chi in dialisi, e così via. È preparato, ha le competenze per farlo? Non importa…
Quella di spostare i professionisti da un reparto all’altro è una pratica già usata da questa e chissà quante altre aziende ospedaliere. Il motivo non è ben chiaro, ma l’infermiera suggerisce che si faccia così «in modo da non far affezionare troppo un lavoratore al suo ambiente di lavoro. Fin dall’assunzione – spiega ancora – viene detto ai nuovi arrivati che vengono assunti dal “dipartimento”. Ciò implica che si lavora nel reparto che compare nel contratto (medicina, geriatria, ematologia, oncologia, nefrologia, dialisi, gastroenterologia) ma all’occorrenza si viene spostati indifferentemente in uno degli altri reparti afferenti al dipartimento medico. Un modo – spiega l’infermiera – per farti accettare da subito il concetto di mobilità, in maniera tale che non protesterai quando te lo chiederanno. Se dovessero chiedere ad una persona che lavora in uno specifico reparto da 5 anni di spostarsi, ovviamente risponderebbe di no. In questo modo il pericolo è scongiurato. Ma una situazione del genere è molto pesante. In tanti si licenziano dopo poco tempo. Nel nostro lavoro conoscere l’ambiente, il reparto, i colleghi, il paziente, è fondamentale. Ci vuole continuità. Non abbiamo mica a che fare con dei bulloni, noi abbiamo a che fare con persone che stanno male».
È anche a causa di questa pratica che va avanti da anni che sorge il dubbio tra i dipendenti che se non si fa qualcosa di concreto per chiudere la questione, questa potrebbe continuare ad oltranza. Ed è per questo che vengono interpellati i sindacati. La situazione è insostenibile e molto pericolosa. All’appello mancano sia medici che infermieri che OSS. «Il tutto – spiega ancora l’infermiera – sarà durato una decina di giorni, ma se non avessimo convocato i sindacati per mettere termine a questa pratica, chissà quanto ancora sarebbe andata avanti».
Perché un punto a questa situazione (che per fortuna di tutti, date le premesse e le condizioni, è andata fin troppo bene) ce la mettono proprio i sindacati, che si mobilitano e la chiudono in poco tempo. «L’azienda si è giustificata parlando dell’imprevedibilità della situazione, della fase emergenziale, che i servizi andavano garantiti in ogni modo possibile, e cose così. Fatto sta che potevano muoversi molto prima per anticipare il problema ma non lo hanno fatto. Mettere dei lavoratori, anche giovani, in una situazione del genere è da incoscienti».
«In uno di quei giorni – ci spiega ancora l’infermiera –, un collega è stato trasferito in ginecologia. Si tratta di un reparto chirurgico, quindi in una situazione molto delicata. Una donna doveva essere operata. Gli hanno chiesto una certa preparazione, non ricordo quale, che va fatta per le pazienti che devono essere operate. Lui, comprensibilmente, non l’aveva mai sentita nominare. Non sapeva cosa fare. Per fortuna sua e della paziente, in suo aiuto è intervenuto un OSS che gli ha fatto vedere il protocollo e lo ha aiutato nella mansione. Solo così se l’è potuta cavare. Il collega è stato molto fortunato: se non ci fosse stato quell’operatore socio-sanitario, non so come avrebbe potuto fare. Mi metto nei panni di chi stava su quel lettino…».
Che l’azienda potesse prendere il problema in controtempo, che si sia comportata, stante la situazione, nell’unico modo possibile o che abbia invece agito male, non può dirlo nessuno se non chi è preposto a farlo. Fatto sta che questo problema non sarebbe nato se non ci fossero stati diversi operatori sanitari che hanno preferito stare a casa (lasciando i colleghi nel caos totale) piuttosto che vaccinarsi contro un virus che ha mietuto vittime principalmente nel loro settore.
E qui la domanda è d’obbligo: perché? «In tanti non si fidano – spiega l’infermiera –, sostengono che questo vaccino non è un vero vaccino e che hanno paura degli effetti collaterali». Lei stessa, dopo la vaccinazione, non è stata bene, con febbre e dolori. «Ma dopo pochi giorni passa tutto. Tutti i vaccini comportano una minima percentuale di rischio. Tutti. Ma oggi non si parla che dei rischi del vaccino anti-Covid. Diversi colleghi hanno detto “preferisco continuare a stare attento, a prendere le precauzioni necessarie, piuttosto che vaccinarmi”. È vero che con tutti i dispositivi di protezione individuale il rischio in ospedale è minimo – conclude l’infermiera –, ma quello di vaccinarsi è un dovere deontologico, un obbligo morale. Anche perché abbiamo a che fare ogni giorno con pazienti fragili, e in tantissimi, in questi anni di pandemia, sono morti».