«Ci sono pazienti che vanno bene e poi a un certo punto peggiorano. E questo succede in tutte le fasce d’età. Anche in pazienti sani si possono riscontrare peggioramenti piuttosto improvvisi». Il Direttore dell’Unità operativa complessa di pneumologia del Policlinico San Matteo di Pavia racconta la situazione dell’ospedale a più di un mese di distanza dallo scoppio dell’emergenza sanitaria in Italia
«Sono stato ufficiale medico di marina: a quei tempi c’era la prima guerra del Golfo e sarei dovuto partire ma per fortuna è finita prima. In quel momento, mentre mi preparavo, soprattutto dal punto di vista psicologico, ero pronto ad accettare ogni eventualità perché temevamo una guerra batteriologica. Questo è il motivo per il quale quando il mio direttore generale, il sabato in cui è iniziata l’emergenza, ha detto che dovevamo andare ad aiutare Codogno – ed era un dovere e non una scelta individuale – io mi sono subito messo a disposizione perché sapevo che lavorare in quelle condizioni per chi non l’ha mai fatto poteva essere pesante».
Angelo Maria Corsico, professore ordinario di malattie dell’apparato respiratorio all’università di Pavia e Direttore dell’Unità operativa complessa di pneumologia al Policlinico San Matteo di Pavia – la più grande d’Italia con 51 posti letto – ammette senza giri di parole che in questo momento la situazione in ospedale è molto difficile e i medici sono messi a dura prova fisicamente e psicologicamente. Nell’intervista a Sanità Informazione, affronta a tutto tondo l’emergenza coronavirus: dal rischio burnout per i sanitari alla necessità di arruolare forze “fresche” per combattere un nemico nuovo, poco conosciuto e molto contagioso.
Professore, com’è la situazione al Policlinico San Matteo di Pavia?
«Siamo molto sotto pressione in questo momento, perché ci sono numerosi pazienti che hanno la polmonite da coronavirus. Oltre alle malattie infettive, anche le pneumologie e nei casi più gravi le sub-intensive e le rianimazioni sono estremamente sotto pressione. Per ora, fortunatamente, non ci sono medici contagiati qui al policlinico San Matteo».
Ci sono abbastanza posti in terapia intensiva?
«Ci sono posti e si sta facendo il possibile per aprirne di nuovi; questo può essere fatto con opere infrastrutturali per aumentare la capacità ricettiva e c’è ancora la possibilità di rendere disponibili le sale operatorie con ulteriori letti di rianimazione: questo chiaramente comporta una riduzione delle attività chirurgiche abituali. Non vorremmo arrivare ad avere difficoltà di assistenza in caso di urgenze e politraumi».
Avete carenze di personale?
«Non abbiamo carenze di personale in questo momento però il peso del lavoro è aumentato enormemente e se la situazione va avanti così rischiamo il burnout di alcuni lavoratori. Certamente sarebbe opportuno che l’organico aumentasse».
Richiamando i medici dalla pensione o puntando sui giovani?
«Visto che gli anziani che contraggono il virus hanno le conseguenze maggiori e lavorare bardati è molto pesante io credo che i giovani possano avere oggi l’opportunità di entrare nel mondo dal lavoro portando forze fresche e nuove competenze. Posso assicurare che è molto faticoso lavorare così. Al momento abbiamo le protezioni individuali, il camice, i guanti ma dobbiamo cercare di risparmiare sulle dotazioni. Quando il medico è vestito deve restare così per tutto il suo turno che magari sono 12 ore. Per questo servono forze fresche, per una persona in pensione è difficile sostenere questo tipo di carico lavorativo».
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Quali sono i sintomi tipici dell’infezione da coronavirus?
«Il problema è proprio questo ed è quello che ha causato il primo focolaio nella zona di Codogno. Questo virus, nella maggioranza dei casi, dà una sintomatologia di tipo influenzale e probabilmente circolava già sottotraccia da molte settimane in Italia e non è stato identificato prima perché la sintomatologia spesso è molto simile all’influenza. I sintomi sono: la febbre, il malessere generale, le mialgie, i dolori muscolari, un po’ di stanchezza, raffreddore e mal di gola. C’è ancora molto sommerso, evidentemente, anche se l’attenzione è molto cambiata. Nelle settimane precedenti all’esordio, intorno al 20 febbraio, circolava già ma non aveva sentore di sé fino a quando non c’è stato il primo caso grave».
Quando diventa polmonite?
«Per chi ha una sintomatologia sfumata non è necessario correre a fare il tampone e a farsi vedere dal medico; deve chiamarlo e curarla come una normale influenza utilizzando la mascherina per evitare di infettare le altre persone. Una specie di “auto quarantena”. Non è necessario fare altro. Se invece c’è una febbre alta che non scende e soprattutto si comincia ad avvertire un senso di peso, costrizione e oppressione sul torace questo può essere il segno della presenza della polmonite. In questo caso, è giustificato chiamare il 112, il 118 e gli altri numeri indicati dal ministero».
Come si distingue una polmonite normale da una da coronavirus?
«Diciamo che quella da coronavirus ha lo spettro tipico delle polmoniti virali che conosciamo già, ci sono sempre anche durante l’influenza stagionale, ma questa non è un’influenza. La sintomatologia, il modo di comparire sono simili e anche la polmonite si manifesta radiologicamente in modo analogo ad altre polmoniti virali, perlomeno nella fase iniziale della manifestazione. La radiografia del torace ci spinge a pensare che, in presenza dei sintomi suggestivi, ci possa essere una polmonite da coronavirus. In tutti i casi così sintomatici è indispensabile fare il tampone».
Come le curate, a seconda dell’entità?
«Non abbiamo una terapia per il coronavirus. Per la polmonite da coronavirus ci sono schemi di terapie che non sono specifiche per questo. Utilizziamo farmaci antivirali che si sono dimostrati efficaci in altre situazioni e che riteniamo che possano essere utili. Oltre a questi si affianca la terapia antibiotica anche perché una delle cose che determina il coronavirus è una maggiore suscettibilità alle infezioni più comuni che possono sovrapporsi».
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Qual è la risposta?
«La risposta non è immediata; possiamo valutare questi pazienti clinicamente tenendo d’occhio alcuni parametri che sono prima di tutto la temperatura, l’andamento dei linfociti che in questa malattia sono particolarmente bassi. Altri parametri che prendiamo in considerazione sono l’LDH e la glicemia. Abbiamo qualche riscontro che quando le cose cominciano ad andare meno bene questi valori tendono ad aumentare. Inoltre, i pazienti che hanno bisogno di usare il ventilatore per supportare la loro funzione respiratoria per migliorare gli scambi gassosi e ridurre la fatica respiratoria sono proprio quelli che hanno valori bassi di ossigenazione».
Sono passate alcune settimane dall’inizio dell’epidemia in Italia: siete riusciti a capire quali sono i pazienti che si aggravano tanto da arrivare in terapia intensiva?
«No. Ci sono pazienti che vanno bene e poi a un certo punto peggiorano. E questo succede in tutte le fasce d’età».
Quindi non dipende solo dall’età e dalle patologie pregresse?
«No. Certamente un paziente fragile avrà un peggioramento della sua condizione già esistente ma anche in pazienti sani si possono riscontrare peggioramenti anche piuttosto improvvisi. In caso contrario, la preoccupazione per questa malattia sarebbe minore di quella che invece c’è. Se colpisse in modo grave solo i soggetti anziani si esaurirebbe da sola, purtroppo. Non è così, chi si ammala non sono solo soggetti fragili».
I soggetti più giovani però guariscono?
«Non si arriva a epiloghi tragici per fortuna, perché i pazienti giovani hanno più “stoffa” per superare situazioni di questo genere, ma hanno bisogno di cure ospedaliere importanti. È questo che sta mettendo in difficoltà, perché non è come l’influenza che la maggior parte dei casi si può curare stando a casa. Quando c’è una polmonite di questo tipo molto spesso è necessario avere cure importanti ospedaliere e per un po’ di tempo».
Cosa pensa delle misure prese finora?
«Sono fondamentali. Se riusciamo a contenerla possiamo farlo solo attraverso queste misure, altrimenti possiamo trovarci in grossa difficoltà soprattutto nelle aree vicine ai focolai iniziali. Finora siamo riusciti abbastanza a contenere l’epidemia in alcune aree geografiche. A Pavia la maggior parte dei pazienti che abbiamo viene da quelle aree geografiche. Il contenimento ha senso. Abbiamo l’impressione, per ora, che sia contenuta a quei focolai, a chi ha avuto contatti con quei focolai. Il fatto riguarda l’R0, il numero medio di persone che verranno contagiate da un ammalato. Ci sono malattie che hanno un R0 altissimo: il morbillo ha sterminato gli indiani d’America. Non siamo evidentemente in questa situazione anche perché abbiamo qualche strumento in più che ci può aiutare, però è necessario ridurre il contagio e fare in modo che questo R0 sia più basso possibile. E le misure servono a questo. Evitare di frequentare i luoghi affollati, ridurre le proprie attività serve anche a diminuire gli spostamenti delle persone e il rischio di incidenti stradali. Tutto questo per non distrarre i sanitari su cose diverse ed evitabili rispetto al coronavirus, per cercare di rendere possibile focalizzare la nostra attenzione sull’emergenza».
Le raccomandazioni sono sempre le stesse?
«Sono i consigli saggi che darebbe la nonna: evitare luoghi affollati, se si ha tosse e sintomatologia influenzale stare a casa e mettere la mascherina, quando ci si incontra è bene non abbracciarsi e baciarsi. Usare i gel alcolici per lavarsi le mani ed evitare di portare agli occhi al naso e alla bocca quando si è fuori casa».
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