Sono già 5mila i medici ad oggi con contratto a tempo determinato e 10mila i contratti atipici (co.co.pro, co.co.co, ecc.). Cassi (Cimo): «Condizioni indecenti». Silenzi (Sigm): «No a funzioni diverse a seconda delle regioni»
Tra contratti a tempo determinato e atipici, in Italia i medici che devono lavorare su una poltrona che traballa sono più di 15mila. Gli organici sono ridotti all’osso, chi lavora – e magari ha la fortuna di avere un contratto stabile – viene costretto a turni di lavoro che vanno ben oltre i limiti stabiliti dalla legge, e il personale che si aggiunge – con contratti però a tempo determinato – a quello già in servizio, non gode delle stesse tutele dei colleghi più “anziani” e porta a casa uno stipendio più leggero di circa il 40%.
Perché se è vero che qui e lì è possibile imbattersi in qualche “mini bando” locale che garantisce, a livello regionale, un minimo di turnover nel personale sanitario (ma sempre con contratto a tempo determinato), per poter entrare in pianta stabile negli organici degli ospedali è necessario aspettare il concorso nazionale. E campa cavallo. Certo, sono stati da poco banditi piccoli concorsi in Campania e Calabria; in Sicilia è stato imbastito un maxi piano di assunzione che prevede, a partire proprio da febbraio, un aumento del personale di 5mila figure professionali; a Roma, in vista del Giubileo, 394 figure tra medici, infermieri, tecnici, ostetriche e operatori sono andate ad aggiungersi da inizio mese alle 184 assunzioni già fatte l’anno scorso. Anche loro, però, lavoreranno con contratto a tempo determinato. Può sembrare poco, ma nuovo personale serve come il pane, specialmente in quelle corsie dove le carenze in organico determinano carichi di lavoro insopportabili per chi ci lavora. Una situazione che, lungi dal restare dentro le mura degli ospedali, si è riversata nelle aule dei Tribunali, in un’ondata di ricorsi che, data la fondatezza delle criticità sollevate, potrebbero costare caro alle casse dello Stato.
«Come se non bastasse – spiega a Sanità informazione Riccardo Cassi, presidente di CIMO (il Sindacato dei Medici) –, di questi 15mila precari, soltanto 4-5mila hanno un contratto a tempo determinato. Gli altri, e dunque circa 10mila, lavorano con contratti atipici, che comportano salari molto più bassi, tutele più fragili, non maturano anzianità e non fanno formazione interna. Insomma, la situazione in cui si ritrova a lavorare il personale sanitario è una vera indecenza». Ed è per questo che, dopo la mobilitazione del 28 novembre e lo sciopero del 16 dicembre, sono state proclamate 48 ore di stop il 17 e il 18 marzo. Uno sciopero che, ammette Cassi, «non è stata una scelta facile. In generale, la strada dello sciopero non piace, non ci divertiamo di certo a farlo e il lavoro che “saltiamo” lo ritroviamo identico il giorno dopo. Siamo dunque disposti a rivedere la nostra posizione e fare un passo indietro, ma solo se veniamo convocati dal Ministero della Salute e vediamo atti concreti». Qualche esempio? «Qualcosa che ci faccia recuperare il ruolo del medico all’interno del Ssn, risposte concrete contro stress e turni massacranti (situazione che anche dopo l’entrata in vigore della normativa non è migliorata), più formazione e un più facile accesso alla professione, oltre che un maggior coordinamento tra le varie Regioni». Perché tutti i problemi che schiacciano i camici bianchi italiani potrebbero essere meno pesanti, se solo il sistema sanitario fosse unico, unito. E invece in Italia ne esistono tanti quante sono le Regioni: «Soltanto Campania e Sicilia – ci rivela Andrea Silenzi, presidente di SIGM (Segretariato Italiano Giovani Medici) – hanno utilizzato, o comunque impegnato, i fondi europei con cui stanziare un po’ di contratti di formazione post-laurea di area sanitaria. Per non parlare poi della «vergogna rappresentata dalle circolari regionali che stabiliscono diversi trattamenti per i medici in formazione specialistica», e che determinano, in alcune situazioni, «l’equiparazione dello Status dello specializzando a quello del medico strutturato lavoratore», mentre in altre «lo specializzando è nient’altro che uno studente».
Ciò determina, secondo Silenzi, delle differenze e delle discriminazioni che hanno generato, col passare del tempo, la trasformazione del giovane camice bianco in una figura ibrida, che non è né medico né infermiere: «Mi chiedo – continua Silenzi – che impatto sul rischio clinico e sulla responsabilità professionale avrà questo utilizzo di turnover a basso costo dei medici neolaureati e neoabilitati con contratti da comparto. È anche per questo che siamo molto delusi per quel che riguarda il tema “contratto”, perché ci aspettavamo una immissione di denaro per le assunzioni, ma la Legge di Stabilità non ne prevede». Insomma, per quanto riguarda il problema della contrattualizzazione dei neolaureati e neoabilitati, tutto è ancora da vedere: «Per ora – conclude Silenzi – quelle delle assunzioni sono situazioni sporadiche e non normate. Ci sono situazioni che vanno aggiustate altrimenti si crea caos su caos».