È piena responsabilità del medico che esegue un esame fornire la corretta diagnosi al paziente. Così ha stabilito recentemente la Cassazione.
Il professionista che esegue un esame diagnostico non può limitarsi ad una mera lettura formale dei dati dello stesso, ma è obbligato altresì ad eventualmente indirizzare il paziente verso ulteriori approfondimenti. È quanto emerge dall’ordinanza n.17410 della Corte di Cassazione dello scorso 14 marzo 2023. Scopriamone di seguito i dettagli.
Una donna con forti dolori addominali notturni si reca al Pronto Soccorso dove il medico di turno, a seguito di una breve visita, la dimette senza ulteriori accertamenti, ipotizzando una diagnosi di forte dismenorrea, ossia un dolore intrauterino che sorge durante i periodi mestruali, somministrandole un semplice antidolorifico. Già nel pomeriggio la signora si era comunque recata dal proprio medico curante, il quale le aveva semplicemente proposto farmaci antispastici da prendere al bisogno.
Il giorno successivo, persistendo il dolore, la donna si reca dal proprio ginecologo di fiducia il quale, a seguito di una ecografia addominale, formula una diagnosi di cisti liquida.
Ma il dolore continua e la signora, l’indomani, va in ospedale, dove viene ricoverata d’urgenza per addome acuto e sottoposta ad intervento chirurgico. Purtroppo, a seguito di complicanze conseguenti all’intervento tardivo, la signora il giorno dopo decede.
La famiglia della signora deceduta fa richiesta di risarcimento a tutti i professionisti sanitari coinvolti a vario titolo nella vicenda: il medico di famiglia, il medico di turno del Pronto Soccorso, il ginecologo di fiducia e l’equipe dei medici chirurghi.
Ma a noi interessa, in primo luogo, la vicenda in relazione al ginecologo, al quale viene contestato:
Se la diagnosi fosse stata corretta, vi sarebbe stato sin da subito un ricovero urgente e – probabilmente – un diverso esito della vicenda.
Secondo quanto riportato nell’ordinanza, il ricorso in Cassazione da parte del ginecologo – condannato in primo grado ed in appello – non viene ritenuto valido. Nella sostanza, emerge una lieve differenza nel pronunciamento delle due corti di merito. In primo grado si conclude che il ginecologo avrebbe agito con imperizia: egli avrebbe cioè trascurato un quadro morfologico della parete intestinale che – se considerato con maggiore attenzione – avrebbe evidenziato l’emergere in poco tempo dell’addome acuto. Per l’appello, se non fosse stato commesso l’errore diagnostico vi sarebbe stata la prescrizione del ricovero d’urgenza.
In sintesi, l’imperizia e l’errore diagnostico conseguente sarebbero causa del ritardo con cui si è deciso il ricovero e l’intervento chirurgico.
La questione rilevante, per gli ermellini, è che anche se il ginecologo non ha le competenze di un internista, in quel frangente egli “[…] aveva la responsabilità di leggere correttamente le […] immagini”. Pur consapevole dei limiti derivanti dalla propria competenza settoriale, il ginecologo avrebbe dovuto correlare le immagini refertate quantomeno a dubbi – come sostiene l’ordinanza – “[…] la cui presa in considerazione non può che far parte del bagaglio professionale del medico […]”. Ciò lo avrebbe condotto a “[…] indirizzare, nello specifico, senza alcun ulteriore ritardo, la paziente, come osservato dalla Corte territoriale, presso strutture in grado di risolvere tempestivamente la criticità diagnostica”.
Un ritardo, quindi, che si configura come gravemente colposo per il professionista sanitario. A tal proposito è indispensabile assicurarsi di essere in possesso di una buona tutela di responsabilità professionale, che comprenda anche il rischio di colpa grave. Magari fissando un appuntamento consulenziale professionale, con un membro del team di SanitAssicura.