Il Presidente dell’OMCeO Milano: «Dibattito anacronistico con 21 sistemi regionali differenti e con le emergenze acuite dalla pandemia». La proposta: «Investire su medicina del lavoro e scolastica e restituire dignità alla medicina generale»
«A me pare che ci si stia focalizzando su questione anacronistiche, a dispetto di una volontà sbandierata solo a parole e che non trova corrispondenza nei fatti, di adeguare la medicina del territorio alle enormi ed urgenti istanze che emergono ancor più forti dopo due anni di pandemia. Quel cambio di passo invocato a gran voce e parimenti preannunciato io proprio non lo vedo».
Non usa mezzi termini Roberto Carlo Rossi, presidente dell’OMCeO di Milano, nel commentare il braccio di ferro che sta tenendo banco negli ultimi giorni tra le Regioni e il Ministero della Salute sulla riforma della Medicina Generale. Tema caldissimo all’ordine del giorno, l’eventuale passaggio dal rapporto di lavoro convenzionato a quello dipendente, caldeggiato da alcune Regioni.
«La questione tra lavoro dipendente e convenzionato, quest’attenzione spasmodica alle modalità di assunzione, mi sembra francamente un’ostinazione a guardare il dito e non la luna. In alcune Regioni c’è la volontà di far entrare con forza il privato sul territorio decretando la morte civile della medicina generale mentre in altre Regioni si punta tutto sul disinvestimento. I veri nodi restano il fatto che ci si continua a contagiare sul territorio, insieme alle cronicità che aumentano, e pensare di gestire tutto questo spezzettando il sistema in 21 modelli diversi è follia. Altro che fondi del PNRR per le Case di Comunità: bisogna varare un piano Marshall per il territorio, con una strategia comune e uno stanziamento di fondi se non a livello europeo, almeno nazionale. È impensabile che alcune Regioni ritengano possibile subappaltare l’assistenza primaria a gruppi privati mentre altre ipotizzano di affidare a quattro dipendenti in croce il lavoro di 200 medici di famiglia, a danno dei pazienti».
«Si parla di cose futili mentre la barca va a picco. È incredibile che dopo tutto quello che è successo con la pandemia non si è capito che la vera necessità è investire in modo adeguato sul territorio. Perché è stato evidente che il territorio non ha retto e continua a non reggere senza che vi sia una vera consapevolezza del fenomeno. I medici passano ore e ore a svolgere pratiche burocratiche davanti ai loro computer, gli oneri in tal senso aumentano di settimana in settimana: quanto tempo rimane a un medico di famiglia per svolgere il suo vero lavoro?»
«Il primo passo per un cambio di paradigma efficace della medicina territoriale consiste proprio nel lasciare che il medico svolga il suo lavoro di medico, di competenze cliniche, di ascolto e cura del paziente, facendo sì che un’altra figura sia deputata allo svolgimento di tutte le pratiche: quindi investire sulla rete, sulle risorse umane. Investire sui servizi di igiene e sanità pubblica, ormai abbiamo imparato che sono una branca imprescindibile nel quotidiano. Così come investire nella medicina del lavoro e nella medicina scolastica. Soprattutto, smettere di considerare la Medicina Generale la “pecora nera” tra le specializzazioni: non dopo il sacrificio di tanti colleghi, che hanno pagato con la vita la loro dedizione al lavoro e ai pazienti nelle prime fasi della pandemia; non dopo che tantissimi colleghi, tutt’oggi, continuano a lavorare con abnegazione nonostante i pesanti strascichi della malattia».
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