Per il vicesegretario FIMMG è importante che «accoglienza e accettazione siano uguali in tutta Italia». Sulle USCA raccomanda «elasticità» e chiede che le nuove Case di comunità «non siano delle monadi isolate» ma che ci sia un «servizio integrato»
La riforma dell’assistenza sanitaria territoriale, che prenderà forma con il cosiddetto DM71, coinvolge in primo luogo i medici di famiglia che saranno uno dei pilastri delle nuove Case di comunità. Il dato strutturale è ormai noto: ci saranno 1350 Case della Comunità (CdC), 400 Ospedali di Comunità (OdC) e 600 Centrali Operative Territoriali (COT) previsti dalla Missione 6 del PNRR.
Il DM71 descrive gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi delle strutture dedicate all’assistenza territoriale e al sistema di prevenzione in ambito sanitario che le regioni e province autonome saranno tenute a garantire. Resta però incertezze su come interagiranno le figure professionali che saranno chiamate a soddisfare le esigenze di salute dei cittadini. Ne abbiamo parlato con Pierluigi Bartoletti, vicesegretario FIMMG.
«Intanto va in una direzione. È certamente migliorabile. Per noi i servizi essenziali che fornisce il medico di medicina generale da solo o in collaborazione con i colleghi devono essere uguali ovunque. La medicina generale è la porta di accesso al sistema pubblico, quello che manca è un servizio di standardizzazione delle porte che non può dipendere dalla singola regione. Accoglienza e accettazione devono essere uguali in tutta Italia».
«Io sono favorevole a tutto quello che è chiaro. Da cittadino mi chiedo: come entro nel sistema pubblico, chi mi ci fa entrare? Lasciando perdere gli slogan, la domanda è: il MMG oggi ha gli strumenti e le capacità organizzative per organizzare un servizio di accoglienza? Il sistema può dare un contributo? Io penso di sì. Vanno delineati un insieme di sevizi che devono essere uguali in tutta Italia. Non è possibile che oggi il servizio sia declinato in ragione della singolarità del medico, dev’essere modulato in maniera standard in tutta Italia. Il cittadino deve sapere che là c’è un riferimento, un medico che risponde, uno studio aperto. Serve più capacità clinica e diagnostica e anche più capacità gestionale degli studi».
«Ad oggi la Casa di comunità è come un poliambulatorio di una Asl, niente di nuovo. La novità dovrebbe essere la rete in cui viene messo: farmacia, MMG, infermieri. La novità è la sinergia del sistema. Non dobbiamo creare delle monadi isolate più o meno grandi ma un servizio integrato che consente al cittadino di muoversi più agilmente di adesso».
Ci sono sufficienti medici di base per garantire i servizi?
«Noi siamo in carenza ma il problema non è quello. Intanto organizziamo quelli che ci sono, poi in relazione ai nuovi bisogni e all’organizzazione si definisce la pianta organica. Parlare di pianta organica senza capire cosa bisogna fare mi sembra una cosa poco produttiva».
Le USCA hanno ancora senso?
«Dipende. In base al bisogno e agli interventi che vengono fatti si capisce se ha ancora senso continuare con queste unità speciali. D’estate il virus respiratorio circola di meno e ci sarà meno bisogno di queste unità. Dipende da regione a regione: se stanno lavorando e uno le chiude bisogna capire al posto delle USCA chi ci va. Se non stanno lavorando bisognerà ragionare in vista dell’autunno quando potrebbero servire nuovamente. Se d’estate non serve si chiuderà e si riaprirà in autunno. Serve un sistema con più elasticità».
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