Amministrare il rischio clinico era questione della massima importanza anche prima, ma con la pandemia la nuova funzione del risk manager lo ha messo al centro del dibattito. Con il prof. Vetrugno (Gemelli) indaghiamo la nuova direzione della sicurezza nelle strutture sanitarie
Garantire la sicurezza dei pazienti e ridurre eventi avversi e il contenzioso legale: queste da sempre le funzioni del rischio clinico e più largamente i compiti del risk manager. Con la pandemia, le necessità non sono cambiate ma l’attenzione è diventata molto più alta e le situazioni più delicate.
Per farne un confronto Sanità Informazione ha incontrato il professor Giuseppe Vetrugno, docente di medicina legale all’Università Cattolica di Roma e risk manager del Policlinico Gemelli. Il professore è intervenuto nel webinar “La funzione del rischio clinico: migliorare la qualità, prevenire l’errore, ridurre il contenzioso nell’emergenza Covid”, organizzato dal provider ECM di Consulcesi Club Sanità in-Formazione.
Un risk manager, ci ha spiegato, «agisce affiancando gli organismi di direzione per disegnare dei processi di cura che siano sicuri, e lo fa sulla base di evidenze documentali che suggeriscono quali approcci adottare all’interno delle aziende e rivisitando i processi interni, una volta che siano stati realizzati».
Alla base delle conoscenze di chi svolge la professione, dunque, deve esserci «non soltanto la disciplina medico legale, ma anche quella dell’organizzazione sanitaria con un po’ di dimestichezza anche di conti economici, perché qualsiasi tipo di intervento venga ad essere suggerito deve comunque tenere conto del fatto che il risk manager non è un’isola deserta ma sta all’interno di una organizzazione sanitaria che deve tenere conto delle risorse tecniche, strumentali, umane ed economiche».
Nella pandemia non è un caso che questa figura sia stata fortemente sollecitata, ha puntualizzato Vetrugno, «perché gli organismi legislativi nazionali e regionali hanno affidato al risk manager una funzione di affiancamento anche della sorveglianza sanitaria sulla sicurezza dei lavoratori». Quella che l’esperto definisce una «felice intuizione» proprio per via della natura “nosocomiale” dell’infezione da Sars-CoV-2.
«Si tratta – ha proseguito – di un’infezione che nel 25% dei casi, secondo le statistiche di letteratura, riconosce un’origine di relazioni interumane all’interno di una struttura di ricovero o di ospitalità. Quindi era inevitabile che proteggendo il personale si impattasse anche sulla protezione dei pazienti».
Una logica che ha dominato anche la riscrittura della campagna vaccinale anti-Covid, o meglio delle priorità di intervento. «Essendo il vaccino uno strumento per la limitazione dell’espressione della malattia – sulla limitazione del contagio ancora i dati non sono così corroborati – concentrare l’attenzione inizialmente sugli operatori sanitari e sociosanitari e sulle strutture sanitarie private e pubbliche è stato corretto, perché intervenendo su quella potenziale fonte di diffusione di malattia si proteggono anche le persone più deboli, che sono i pazienti che entrano in quelle strutture». La logica è stata vincente.
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