La campagna vaccinale contro il Covid-19 continua tra mille difficoltà. Cosa succede al lavoratore che rifiuta di vaccinarsi? L’azienda può prendere provvedimenti? Parla l’avvocato Andrea Marziale (specialista in diritto del lavoro e sanitario)
Se un operatore sanitario rifiuta di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19 e contrae il virus sul luogo di lavoro, l’INAIL può rifiutarsi di risarcirlo? E l’azienda, ovvero il datore di lavoro, può licenziarlo? È una questione sostanzialmente nuova, nata nel momento in cui è partita la campagna vaccinale in Italia. E, in quanto nuova, ancora non è ben definita. Tant’è che è stato lo stesso Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro a chiedere un parere ai Ministeri del Lavoro e della Salute. In attesa che i dicasteri interpellati si pronuncino, come ci si deve regolare? Lo abbiamo chiesto all’Avv. Andrea Marziale, partner di QUORUM e consulente di Consulcesi & Partners, specializzato in Diritto del Lavoro e Sanitario.
«È un discorso molto complesso che si pone sulla stessa falsariga della possibile ipotesi per il datore di lavoro di licenziare chi si rifiuta di fare il vaccino. A mio parere, il problema è che manca tutt’ora, e l’Inail ha fatto bene a chiedere il parere ai due Ministeri, una legge che preveda in maniera chiara l’obbligo di vaccinazione per una serie di categorie lavorative. Anche per questo motivo, ovvero la mancanza di un obbligo formale, il Garante della Privacy ha stabilito che il datore di lavoro non può chiedere se il lavoratore si è vaccinato e non può chiederlo neanche al medico del lavoro, al quale invece spetterà il compito di valutare l’idoneità alla mansione specifica ed eventualmente segnalare all’azienda casi particolari. Premesso questo, fino ad ora ci consta che l’INAIL abbia avviato le varie istruttorie nei casi di contagio da Covid-19 degli operatori sanitari per stabilire se il contagio sia avvenuto durante lo svolgimento della prestazione lavorativa (e lo dovrebbe fare anche per quei dipendenti che non siano operatori sanitari). Con la disponibilità del vaccino la situazione è cambiata. Ma il discrimine, a mio parere, resta sempre (e a maggior ragione nel settore sanitario) il fatto che l’azienda abbia fatto tutto il possibile per assicurare la salute e la sicurezza dei suoi dipendenti, ovvero predisponendo e mettendo in pratica tutti i Protocolli di sicurezza per garantire le migliori condizioni possibili. Nel momento in cui l’azienda si è mossa in maniera corretta e lo stesso hanno fatto i dipendenti (indossando tutti i DPI e seguendo le giuste procedure), a mio avviso l’INAIL dovrebbe concedere l’indennizzo. Discorso diverso se un operatore sanitario scientemente e volutamente non si è sottoposto al vaccino ed è andato ad assistere un paziente Covid senza alcun tipo di protezioni. Ovviamente questo sarebbe un caso molto diverso ma, mi viene da dire, anche abbastanza paradossale per cui – sempre fatte salve le risultanze di un’attenta istruttoria – potrebbe essere giustificato il rifiuto dell’INAIL al risarcimento».
«Dal mio punto di vista potrebbe essere giusto proprio perché, considerato che al momento non c’è obbligo di legge, se ci sono determinate categorie più a rischio tanto più importanti saranno le misure previste dai protocolli di sicurezza messi in atto dalle aziende. E dunque, se un lavoratore (così come a monte il suo datore) rispetta tutti i protocolli di sicurezza ma rifiuta il vaccino, non si può rispondere a prescindere “sì, ha diritto al risarcimento” oppure “no, non ne ha diritto”. C’è sempre bisogno di un’istruttoria completa. Leggo in proposito che l’ex Ministro del Lavoro, Cesare Damiano, oggi componente del Consiglio d’Amministrazione dell’INAIL, premettendo che si tratta di un parere personale, ha dichiarato che a suo giudizio “è logico che chi decide di non vaccinarsi e svolge una mansione a rischio poi non possa chiedere il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro”. Forse, in questo caso, occorrerebbe un giusto compromesso: facendo sempre riferimento all’ambito sanitario, e dunque categorie ad alto rischio contagio da Covid-19, se un lavoratore non vuole vaccinarsi potrebbe essere spostato a svolgere altre mansioni per le quali non è più esposto, o lo è in maniera nettamente inferiore, al rischio contagio. Il problema, però, è che questo “posto” più sicuro non è detto che esista ovunque. Per cui resta comunque il problema di capire come può l’azienda mettere “in sicurezza” un lavoratore se non ci sono altre mansioni da fargli svolgere. E ricordo a me stesso che in casi recessi per giustificato motivo oggettivo/motivi economici l’azienda è sempre onerata del repechage per verificare se ci siano posizioni alternative – anche di livello inferiore – ove adibire il lavoratore da licenziare».
«Il datore di lavoro non può chiedere esplicitamente ad un lavoratore se si è vaccinato contro il Covid-19, ma ci sono dei distinguo. Lo stesso Garante per la Privacy ha detto che per settori particolari, come quelli in cui i dipendenti sono esposti ad agenti patogeni, il medico competente può trattare i dati dei lavoratori vaccinati e non vaccinati e tenerne conto per effettuare la valutazione sull’idoneità specifica alla mansione. In questi casi, il medico del lavoro potrà segnalare all’azienda se ci sono casi specifici di lavoratori – che magari non si sono vaccinati – più esposti al rischio rispetto agli altri. Insomma, l’azienda non può farlo di sua iniziativa ma il medico competente potrà valutare caso per caso, sempre con la finalità di garantire le migliori condizioni di tutela della salute e sicurezza».
«A mio avviso, questo tipo di licenziamento ad oggi non è possibile, anche per i motivi che ho detto sopra. In ogni caso, l’azienda dovrà sempre valutare caso per caso ma resta comunque un discorso molto ampio. Come ci si comporta se un operatore sanitario non si vaccina e l’azienda non ha altre mansioni, meno rischiose, da affidargli? In questo senso, capisco e condivido la preoccupazione di Cesare Damiano quando sostiene che dovremmo mettere in condizione queste persone di non essere un pericolo per sé e per gli altri. Per questo potrebbe essere auspicabile un obbligo vaccinale per tutti, ma al momento in Italia, come in tantissimi altri Paesi, non ne abbiamo la possibilità. Le situazioni, dunque, vanno valutate caso per caso e, a mio avviso ed a maggior ragione in questo periodo, il minimo comun denominatore che deve accomunare lo svolgimento di ogni rapporto di lavoro è che non manchi mai la predisposizione e il rigido rispetto di tutte le misure di sicurezza all’interno delle aziende e degli ambienti lavorativi a tutela dei propri dipendenti e sempre nel rispetto degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. (oltre che dal T.U. n. 81/2008)».
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